Il 78enne pregiudicato possedeva decine di beni immobili e mobili tra Palermo e Trapani. Nonostante una condanna passata in giudicato, l'uomo continuava a tessere le fila gestendo un mega patrimonio
Confiscati nove milioni a un vecchio boss dell’Uditore Imprese edili ed estorsioni per conto di Cosa nostra
Confisca dal valore di nove milioni di euro tra beni mobili e immobili al boss settantottenne Antonino Maranzano, pregiudicato, attualmente condannato a otto anni e sei mesi di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso.
Il decreto di confisca è stato disposto dal Tribunale di Palermo – Sezione Misure di Prevenzione, su proposta avanzata dal questore Renato Cortese che, oltre alla misura patrimoniale, ha disposto anche la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per tre anni.
I beni sottoposti al provvedimento sono la società Edilcolor srl e i beni aziendali comprendenti sette immobili (che si trovano in Corso Calatafimi e in via Giuseppe Sunseri), e un’automobile; la 3g Costruzioni e servizi srl il cui patrimonio immobiliare è rappresentato da 16 appartamenti a San Vito Lo Capo e undici appartamenti, cinque cantine e un esercizio commerciale a Palermo in via Evangelista Di Blasi, un immobile in via Francesco Speciale, nonché due autocarri e due auto. Raggiunto anche il patrimonio di un’altra società, la Immobiliare cld, con i suoi sette immobili ubicati tra Palermo e San Vito Lo Capo. Infine altri appartamenti e box sempre tra Palermo e Trapani nonché conti correnti bancari e polizze assicurative.
Antonino Maranzano è una vecchia conoscenza delle forze dell’ordine. Venne arrestato il 10 giugno 2010, in occasione di una maxi operazione antimafia a Palermo. Al centro dell’inchiesta del dipartimento mafia ed economia della Dda la gestione di grandi appalti pubblici e privati e gli interessi su questi di Cosa nostra. Diciotto le persone raggiunte dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, riciclaggio ed interposizione fittizia di beni e tra questi spiccava proprio la figura di Maranzano.
Ed è la stessa operazione dove vennero coinvolti l’imprenditore Francesco Paolo Sbeglia, i suoi figli, nonché Francesco Rizzacasa e l’imprenditore dell’azienda vitivinicola Abbazia Sant’Anastasia Francesco Lena, che secondo i magistrati, in quegli anni vi avrebbe investito proprio i soldi della mafia. Lena fu assolto nel procedimento con rito abbreviato nel 2011 e nell’aprile del 2018 è rientrato in possesso di tutto il suo patrimonio.
Stessa sorte non ebbe Maranzano che, secondo quanto emerso nel processo di appello conclusosi il 21 febbraio del 2014, avrebbe fatto parte della famiglia mafiosa dell’Uditore, svolgendo il ruolo di referente per poi esercitare un controllo attivo sulle imprese edili operanti nel palermitano.
Un ruolo chiaro e ben definito quello di Maranzano, che non ha mai nascosto in questi anni il suo operato all’interno dell’organizzazione criminale. Secondo i giudici di secondo grado Maranzano si sarebbe attivato nei confronti di un’altra figura chiave della famiglia dell’Uditore, Francesco Bonura, e di altri esponenti, riguardo la gestione degli interessi economici sempre con il fine di agevolare Cosa nostra.
Inoltre Maranzano avrebbe fittiziamente attribuito a Francesco Gottuso, con il quale avrebbe stretto un accordo, l’intera titolarità della 3G Costruzioni srl, di cui era in realtà socio occulto. Un modo, concludono i giudici, per sfuggire alle misure patrimoniali.
Il boss settantottenne non solo avrebbe continuato in tutti questi anni a gestire gli affari di Cosa nostra distribuendo commesse ma avrebbe permesso a Francesco Bonura e Gaetano Sansone, il costruttore che diede ospitalità al boss Totò Riina durante la sua latitanza nel complesso di via Bernini a Palermo, di continuare a agire in modo occulto nel mondo degli affari del settore edile. Insomma il vecchio boss avrebbe garantito loro di fatto una posizione dominante in tutto quello che riguardava il settore delle costruzioni a Palermo e dintorni.
Una figura, quella del boss dell’Uditore, che nonostante la sua condanna continuava a tessere le fila gestendo un mega patrimonio che già nel 2011 era stato raggiunto da un provvedimento di sequestro, a firma dell’allora presidente della Sezione misure di Prevenzione Silvana Saguto, con i giudici Lorenzo Chiaramonte e Guglielmo Nicastro.
Di fatto questo provvedimento andava a aggiungersi a un altro sequestro risalente al 2001, poi revocato nel 2004 per via di un’escamotage e che permise al Maranzano di rientrare in possesso, per un periodo, di tutti i suoi beni. Ma la sua posizione si aggravò nuovamente dopo l’arresto e i suoi beni ricaddero nell’occhio del ciclone investigativo.
All’epoca determinanti per il lavoro degli inquirenti furono le intercettazioni tra Maranzano e Bonura da dove si evinceva l’appartenenza dei due a Cosa nostra. Ma fondamentali furono soprattutto le intercettazioni all’interno del box di viale Michelangelo del boss Nino Rotolo, dove si decidevano appalti e estorsioni. Da qui prese il via il procedimento Mafia e Appalti che portò a undici condanne e due assoluzioni e nel quale venne condannato, oltre Maranzano, anche lo stesso Rotolo a dieci anni.
Ora dopo ulteriori indagini patrimoniali condotte dall’ufficio Misure di Prevenzione della divisione anticrimine della questura di Palermo è stato dato un colpo definitivo al patrimonio dell’ anziano boss con il fiuto e la passione per gli affari immobiliari.