Condanna. È questa la sentenza pronunciata dalla terza sezione della Corte d’Assise d’Appello di Catania per Emilio Coveri, il presidente dell’associazione Exit-Italia, imputato nel processo per istigazione al suicidio di Alessandra Giordano. La 47enne di Paternò, insegnante di scuola primaria in un istituto di Misterbianco, morta il 27 marzo del 2019 a Forch, un paesino svizzero nel cantone di Zurigo, nella struttura Dignitas. Come era stato richiesto […]
Il presidente di un’associazione è stato condannato per istigazione al suicidio dell’insegnante di Paternò
Condanna. È questa la sentenza pronunciata dalla terza sezione della Corte d’Assise d’Appello di Catania per Emilio Coveri, il presidente dell’associazione Exit-Italia, imputato nel processo per istigazione al suicidio di Alessandra Giordano. La 47enne di Paternò, insegnante di scuola primaria in un istituto di Misterbianco, morta il 27 marzo del 2019 a Forch, un paesino svizzero nel cantone di Zurigo, nella struttura Dignitas. Come era stato richiesto dalla procura, Coveri è stato condannato a una pena di tre anni e quattro mesi di reclusione. Inoltre, al presidente dell’associazione è stata applicata anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni. Coveri è stato anche condannato a risarcire le parti civili, ovvero i familiari di Giordano. Dal loro esposto, infatti, era partita l’inchiesta. «Restiamo in attesa di potere leggere le motivazioni – commenta a MeridioNews l’avvocata Arianna Corcelli che, insieme al collega Roberto Mordà, difende Coveri e che aveva chiesto di spostare il processo a Torino per incompetenza territoriale – Intanto, però, riteniamo che questa sentenza sia infondata. Per questo – aggiunge – depositeremo ricorso per Cassazione. Ancora una volta – conclude la legale – non è stata rispettata la volontà della signora Giordano. Anche da morta, nessuno la ascolta».
Contro la sentenza di assoluzione in primo grado, con la formula «perché il fatto non sussiste», emessa il 10 novembre del 2021 dalla giudice per l’udienza preliminare Marina Rizzo a conclusione del processo celebrato con il rito abbreviato, erano stati il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Andrea Brugaletta a presentare ricorso. Per l’accusa, il presidente di Exit-Italia non avrebbe fornito nessun aiuto materiale alla donna ma avrebbe «rafforzato il proposito di suicidio […] con plurimi rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica dal 2017 al 2019; induceva la Giordano, sofferente per forme depressive e sindrome di Eagle (una nevralgia facciale atipica, ndr), a iscriversi alla associazione Exit; condotte accompagnate da sollecitazioni e argomentazioni in ordine alla legittimità, anche etica, della scelta suicidiaria». Coveri ha sempre nega l’istigazione e le sollecitazioni. «Alessandra non la sentivo più dall’agosto del 2018», aveva detto Coveri in una intervista rilasciata a MeridioNews in cui aveva anche precisato che i toni delle conversazioni e dei messaggi sarebbero stati neutri: «Non era un rapporto speciale». Le mail a cui si fa riferimento, invece, «sono quelle con i bollettini informativi che inviamo a tutti i soci». Una newsletter con le attività dell’associazione, le storie delle persone, le novità normative.
«È la prima volta – avevano dichiarato al nostro giornale gli avvocati che difendono Coveri – che il presidente di una associazione finisce imputato per avere dato a un socio delle informazioni reperibili da chiunque su internet». Secondo la procura, invece, Coveri avrebbe «fornito un contributo causale idoneo a rafforzare un proposito suicidario prima incerto e titubante su una persona affetta da patologie non irreversibili benché dolorose, anche perché non ben curate, sfruttando l’influenzabilità della donna per inculcare le sue discutibili idee di suicidio assistito come soluzione alle sofferenze fisiche e morali della vita». In realtà, stando a quanto ricostruito nel corso delle indagini, già prima di arrivare in Svizzera, la donna aveva richiesto e inviato molte informazioni via mail alla clinica Dignitas.
Il giorno della partenza sono i familiari a fare ai carabinieri una segnalazione di allontanamento volontario. Qualche giorno dopo, arriverà l’integrazione di querela per istigazione al suicidio. La sorella Barbara e il fratello Massimiliano, nel frattempo, vanno in Svizzera per raggiungere la donna. Prima di partire, lui invia una mail alla struttura con una diffida a portare a termine il suicidio assistito della sorella. Per tre giorni, la donna non risponde più alle chiamate e ai messaggi in cui i familiari le chiedono di tornare indietro e le domandano se abbia già fatto «le visite». Tre ore prima di morire, Giordano parla con il fratello Massimiliano e «lo rassicura che era una sua libera scelta e gli chiede di accettarla». A mezzogiorno, manda un messaggio al fratello Francesco: «Vi prego di rispettare la mia decisione, comprendo il vostro stato d’animo e mi dispiace ma non sono in condizione di sopportare ancora dolori e sofferenze».