CLASSIC: Surfer Rosa – Pixies

Pixies

SURFER ROSA

(1988, 4Ad)

 

 

Portorico, estate del 1985. Charles Thompson, ragazzone piuttosto in carne, faccia rotonda, volato nell’isola centroamericana per un periodo di studio, è un istrionico autodidatta della chitarra dai natali bostoniani. Durante il semestre trascorso nella bollente San Juan, Thompson, suonerà molto, moltissimo e starà a contatto con un’ampia gamma di personaggi singolari, matti da collage, alcolizzati e psicotici, che, Charles, comincia a tramutare nelle sua mente creativa in veri e propri protagonisti di canzoni assurde, giocate su bizzarri voli di fantasie. A Portorico il giovane Thompson divide la stanza con un tale di nome Joey Santiago, studente del Massachusetts d’origini filippine – chitarrista innamorato del lavoro musicale di Gorge Harrison nel “White Album” dei Beatles – con il quale abiterà per mesi; Tra i due sarà subito intesa e di lì a poco, tornati entrambi negli Stati Uniti e coinvolti David Lovering (batteria) e l’eccentrica bassista Kim Deal, mettono su i Pixies. Pixies cioè folletti, cioè parabole mistificanti, stramba fantasia, cioè ironia e mondo colorato. Forse un riferimento ai tempi del dormitorio irrequieto di San Juan, forse un’allusione agli spettri dell’alcol e della droga, i testi di Charles – nel frattempo divenuto ‘ufficialmente’ Francis Black (il padre conservò questo nome per un eventuale nuova gravidanza della moglie) – sono schizofrenici e sconnessi e la sinergia con Santiago che li porta in musica, è qualcosa di assolutamente originale: lavori chitarristici spiazzanti, a metà tra terribili riff e rallentamenti improvvisi; un acerbo uso del punk, mischiato, ibridato, con dolcezza pop e con amarissima polvere di noise; cori strampalati di Black e Kim Deal: urlacchiate di lui uniti alle decantazioni di lei; Ed infine, come ciliegina su questa torta così ‘pasticciata’, il ‘code switching’ di Francis che si diverte a passare dalla lingua inglese a quella spagnola, imparata durante il suo soggiorno portoricano.

 

Dunque sono queste le impronte digitali dei Pixies, impronte che si fanno notare immediatamente già alle prime uscite nei club di Boston. Quella formazione così ‘strana’, così presuntuosa e divertente non perderà troppo tempo, infatti, prima di farsi pubblicare un demo. Dopo il primo antipasto a nome ‘pixies’ con l’ep “Come On Pilgrim”, i ‘folletti’ iniziano a fare sul serio con Surfer Rosa, uscito per l’inglese 4AD. La casa discografica è sicura: i Pixies sono un fenomeno di successo. Sono il perfetto riassunto del pastiche di quei fine anni ottanta ma, soprattutto, la devastante sintesi di un rock che, in quel periodo, diventa ancor più onnivoro, demistificante e irriverente. “Surfer Rosa” che, non ci scordiamo, vede al mixer il giovanissimo genio Steve Albini, è – come la stampa di allora lo descrisse – il fenomenale risultato di un suono venuto fuori dallo shekeraggio di “due terzi rumore e un terzo melodia pop”. Dunque, un deciso rinnegare canoni e forme e, come si diceva in apertura, una vera e propria rivoluzione partita dal basso condotta contro l’intoccabile torre d’avorio del ‘maledettismo’ anni settanta e dello “stilismo” anni ottanta. Black & soci fanno, insomma, ciò che vogliono senza dar conto a niente e a nessuno, così, le linee di basso robuste come radici (Gigantic, Tony’s Theme), le distorsioni chitarristiche d’ispirazione youthiana (nel senso di Sonic Youth), la batteria rotolante, libera, leggera (Broken Face, Oh My Golly!) ed il canto (a due) gracchiato, stonato, garage (River Euphrates) sono cucite, senza anestesia e lasciando vistose cicatrici, a cadute di pressione, qualche dondolante sdrammatizzazione e al gusto pixiesiano per il gioco del pop (Brick is red) e della ricerca della melodia canticchiabile, fischiettabile (Caribou).

 

Un capitolo a parte poi è da riservare a quello che è, certamente, il capolavoro assoluto del disco: Where is my mind?.

L’intro di chitarra acustica, gli eco di voci, Francis Black che canta il verso: “con i piedi per aria e la testa per terra” (utilizzato in maniera attiva anche nel film “Fight Club” di David Fincher), il pezzo è una specie di manifesto (inno?) del kaos esistenziale di una generazione. La perdita di identità di una fetta di giovani che sta per affacciarsi negli anni ’90. “Where is my mind” sarà, senza dubbio, l’apripista per il movimento Grunge che, di lì a poco e orbitando dalle parti di Seattle, interpreterà la disillusione della cosiddetta generazione X. I Pixies sono, dunque, a modo loro degli anticipatori anche se, con in tasca un forte senso del grottesco, nelle mani un vivace spirito demenziale e tra le righe un’allucinazione perpetua, rimangono sino ad oggi un esemplare unico ed inarrivabile di melting pot musicale, lirico e concettuale.

 


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