Una delle operazioni antimafia più imponenti degli ultimi anni. Centosei ordinanze di custodia cautelare in carcere, tre persone agli arresti domiciliari, scardinati 13 gruppi criminali che operavano nel territorio etneo. E tutti facevano capo al clan Laudani, i mussi di ficurinia, una delle cosche più sanguinose attive a Catania e provincia. È il quadro che è emerso dall’inchiesta I vicerè della procura di Catania: quattro anni di indagini, ancora nel vivo, 2672 pagine di ordinanza, un blitz messo in atto da oltre 500 carabinieri. «Il clan era una vera e propria holding: i singoli gruppi avevano potere decisionale sulle piccole estorsioni e sull’ordinaria amministrazione criminale. Erano i vertici, invece, a occuparsi dei racket più importanti e dei fatti più sanguinosi», spiegano dalla procura. Le accuse contestate, a vario titolo, sono quelle di associazione mafiosa, associazione a delinquere per il traffico di droga, estorsione e intestazione fittizia di beni.
Ma c’è anche il favoreggiamento per alcuni imprenditori taglieggiati, che non hanno fornito elementi utili allo svolgimento delle indagini, e il concorso esterno per i colletti bianchi coinvolti. Tra i quali due avvocati (Giuseppe Arcidiacono, di Paternò, e Salvatore Mineo, di Biancavilla) e un esponente delle forze dell’ordine (il carabiniere romano Alessandro Di Mauro, ex comandante della stazione di San Giovanni La Punta). Nei loro confronti le accuse parlano, in vario modo, di rivelazione di segreto d’ufficio e di accesso abusivo al sistema informatico. Tutti e tre sono stati trasferiti in carcere, in attesa degli interrogatori di garanzia. Che, in alcuni casi, non sono ancora stati fissati.
Nonostante fosse in carcere, secondo gli investigatori il patriarca Sebastiano Laudani (classe 1926) continuava a fornire direttive ai suoi. E a manifestare fastidio nei confronti del pentimento di suo nipote, Giuseppe Laudani, il primo e unico pentito di sangue della famiglia. Giuseppe è stato arrestato e gli viene contestato il ruolo apicale sin dagli anni in cui era ancora minorenne. Figlio di Gaetano Laudani, dei sei nipoti Giuseppe era il prediletto del nonno Iano. «Lo so, tu avevi un debole per questo ragazzo», gli dice una donna nel corso di un colloquio in carcere, intercettato dalle forze dell’ordine. «‘Stu bastardu e cornuto e figlio di sdisonorata – risponde Sebastiano Laudani – Il discorso è questo qua: macchiau ‘u nomu». La decisione di collaborare con la giustizia presa da Giuseppe «ha macchiato il nome», secondo il boss detenuto, che aggiunge: «Era una cosa importante, l’onorabilità. È stata una cosa pesante».
A organizzare le attività della cosca sarebbero state tre donne: si tratta di Concetta Scalisi, Maria Scuderi e Paola Torrisi. Il nome che torna più spesso nell’ordinanza di custodia cautelare è quello di Concetta, figura di spicco, figlia del boss Antonino, referente per Adrano. A seguire Maria Scuderi, moglie di Santo Laudani, ammazzato nell’agosto del 1990. Sarebbero state loro due a gestire la cassa dell’associazione e a prendere decisioni legate all’organizzazione del racket delle estorsioni. Paola Torrisi, invece, avrebbe avuto il compito di organizzare una cellula dell’associazione nella zona di Caltagirone. Area nella quale il clan Laudani avrebbe voluto estendere le sue ramificazioni. «Le tre avevano ruoli manageriali e di promozione della cosca», spiega la magistrata Giovannella Scaminaci. Che, insieme ai colleghi Pasquale Pacifico, Lina Trovato e Antonella Barrera, e al procuratore aggiunto Amedeo Bertone ha seguito le indagini.
Nelle mani degli investigatori ci sono anche le liste degli imprenditori sottoposti a estorsione. Un giro d’affari sottostimato in 500mila euro al mese, dovuti al pizzo imposto nei territori di San Giovanni La Punta, Acireale, Giarre, Zafferana, Piedimonte, Caltagirone, Randazzo, Paternò, San Gregorio, Aci Catena, Mascali e Viagrande. Per i commercianti taglieggiati i metodi estorsivi includevano attentati e sequestri di persona: «Ci sono casi in cui i cittadini venivano minacciati, prelevati nelle loro abitazioni e picchiati selvaggiamente fino a che non sottostavano alle richieste del clan», afferma il comandante dei carabinieri Francesco Gargaro. Modus operandi che avrebbe garantito il silenzio delle vittime: «Sono pochi quelli che hanno ammesso di essere stati sottoposti al racket. E quelli che lo hanno fatto hanno ammesso di essere stati minacciati solo da Giuseppe, il pentito. In questo modo erano sicuri di non avere ritorsioni», commenta il procuratore Pacifico.
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