È retorico e ormai conformista consegnare alla data del 27 gennaio la memoria della Shoah? Dobbiamo forse ignorare la data? Ma chi ha detto che il 27 debba consistere in una celebrazione retorica, vuota e burocratica? Il 27 gennaio sia il filo ininterrotto delle nostre domande sulla storia e sul vissuto quotidiano
Che cosa resta di Auschwitz?
Il 27 gennaio del 1945 il soldato dell’Armata Rossa Yakov Vincenko ad Auschwitz apre il portone con la scritta “Arbeit macht frei” e scopre l’orrore.
Dal 2000 il 27 gennaio è istituzionalizzato come “Giorno della memoria”. Dopo cinquantacinque anni. La Facoltà di Lingue e Letterature straniere dal 2005 ha inserito il 27 gennaio nel calendario delle sue iniziative. È retorico e ormai conformista consegnare alla data del 27 gennaio la memoria della Shoah? Dobbiamo forse ignorare la data?
È quanto adombra Alessandro Piperno in un intervento pubblicato dal “Corriere della Sera” il 21 gennaio nel quale si dichiara ostile alla celebrazione:”Non per quello che rappresenta ma per quello che è diventato. C’è qualcosa di estetizzante nella commozione delle scolaresche sgambettanti sui prati di Auschwitz, ma ancor più nell’enfasi con cui i loro insegnanti la reclamano al grido:”Non dimenticate!””. Aggiunge come “per alcuni, il Giorno della Memoria sia diventato l’obolo da versare per garantirsi il diritto all’elaborazione di deliranti raffronti. Tipo quella della mia ex amica che una volta mi chiese: come può un ebreo come Sharon comportarsi come un nazista?”.
Merita un commento questa presa di posizione di Piperno che non esito a definire strumentale e forviante. Fa intendere infatti una valutazione con la quale non potrei non concordare: la celebrazione retorica, quasi l’obbligo burocratico (come i temi sugli alberi o sull’Europa che nella mia scuola ci costringevano a comporre) di “ricordare” sono la negazione della partecipazione, contestualizzata e meditata, alla comprensione dell’evento e all’emozione, che è tale se prende la nostra esistenza, che la memoria può far germogliare.
Ma chi ha detto che il 27 debba consistere in una celebrazione retorica, vuota e burocratica? Ma, ancor più, come si può continuare a confondere l’antisemitismo con la critica alle politiche dei Governi dello Stato d’Israele? Rovesciando la medaglia, non condividere il fondamentalismo islamico significa di per sé essere anti-arabi? o non condividere la dottrina Bush della “guerra preventiva” significa essere di per sé essere anti-americani, quando buona parte dell’opinione pubblica statunitense esprime più che un dubbio sulle menzogne sulla guerra in Iraq? Sarebbe utile fuoruscire dalle nebbie dell’ideologismo e delle strumentalizzazioni.
La memoria della Shoah non può consistere in una data. Ha ragione Sergio Luzzatto. La memoria vige in quanto vige l’oblio. Se ricordiamo, ricordiamo perché il presente ci induce a ricordare. E se ricordiamo è perché il ventre che generò la “soluzione finale ” è ancor fecondo: è lo stato d’eccezione, è quando il diritto include in sé il vivente tramite la propria sospensione costituendo uno spazio vuoto di diritto; è il potere che fonda un ordinamento e che nello stesso tempo ne è fuori; è la violenza che diventa diritto e il diritto che diventa violenza. È Auschwitz, sono i gulag, è Guantanamo, sono le zattere dei migranti, sono i moli delle vite stracciate, sono le baraccopoli del nostro mondo.
Sono le foibe? Se ne faccia infine chiarezza. I morti delle foibe non sono patrimonio di uno schieramento politico. Si faccia chiarezza e si dica ai politicanti di non fare demagogia. Organizzi la nostra cattedra di Storia contemporanea un Convegno sulle foibe. Contribuiamo a costruire un approccio lontano dagli ideologismi e teso al confronto, scientifico e limpido. Il 27 gennaio sia il filo ininterrotto delle noste domande sulla storia e sul vissuto quotidiano; sia la corda che ci tiene inquieti e angosciati, incerti ma determinati nella ricerca inesausta della liberazione. Il 27 alle ore 20 ascoltiamo.