C’era una volta il po’

Ho sviluppato un’intolleranza da cui sto cercando disperatamente di guarire. Mi è stato detto che la cura è una sola: una corretta alimentazione. Al termine della mia dieta a base di crusca, pare, dovrei essere in grado di misurare il mio livello di pedanteria: diventerei pedante sì, ma nel modo giusto.

Finché non avrò definitivamente posto rimedio al mio problema, comunque, sarebbe bene tenerne sotto controllo alcune spiacevoli manifestazioni, sintetizzabili in una sola parola: insofferenza. Ammetto di essere fortemente insofferente ad abusi di apostrofi, carestie d’accenti, ortografie fantasiose e sintassi indigeste.

Non dico di sentirmi immune da raptus linguistici – da errori, insomma, eufemisticamente chiamati «sviste», iperbolicamente chiamati «orrori», realisticamente chiamati «strafalcioni». Essere bersaglio della propria insofferenza è la cosa più fastidiosa che esista.

Però, confesso pure che potrei essere capace di qualche sproposito quando – inciampando in un *qual’è o un *tal’è – incontro dei piccoli intrusi, apostrofi rosa tra le parole «t’avevo avvisato»…

 

Al contrario, mi capita di ammirare la scioltezza, la precisione e la sprezzatura con le quali si privilegia, a fine di parola, un accento piuttosto che un altro. È la nonchalance tipica di chi, ai compleanni, da bendato attacca la coda al ciuco. Una scelta fatta a muzzu, per parlare siculo.

Non che mettere un accento acuto su «poiché» o «nonché» aiuti a vivere meglio: la mia, più che altro, è una difesa sindacale.

Se ci intestardiamo a usare sempre lo stesso accento, quasi in maniera tirannica (come accade alla povera A nella gialappica “Lettera 22”), dell’altro non sapremo che farcene. E viceversa (in genere si inflaziona quello acuto o quello grave a propria discrezione).

Inoltre, quando incontro  *é o *cioé , divento empatica con queste due paroline, travolte da un vento che evidentemente tira da ovest, spingendo i loro cappellini dalla parte opposta.

 

Eppure, ho notato che fin qui le mie difese immunitarie reagiscono abbastanza ammodo. La mia intolleranza, in effetti, si manifesta in maniera molto più violenta dinnanzi a un altro fenomeno: il bullismo linguistico.  

In questo caso, la mia insofferenza assume quasi i connotati di una denuncia sociale. Apostrofi bistrattati da accenti prevaricatori e accenti che spadroneggiano ai danni dei più indifesi apostrofi: del po’ quasi non c’è più traccia, dal momento che *è molto più di grido. Vimperativo? Oggi si scrive *và. Non è imperativo? Si scrive *và lo stesso.

Questi spavaldi accenti vanno un po’ su tutto, indipendentemente da eventuali necessità disambiguanti. Sono come il sale: condiscono le parole in base al gusto. E fu così che il fa diventò *fà.

C’è chi, a dirla tutta, ha deciso di arginare quest’invasione eliminando gli accenti in toto: così si trasforma in cosi, mentre età diventa ETA, organizzazione terrorista basca. Il però è ad un passo dall’ evolversi – come sembrerebbe naturale, per una parola tronca – in un’entità arborea, ma ancora eroicamente resiste.

Ma, aldilà di questi sporadici episodi di psicosi, a passarsela piuttosto male è il sì, unico (o  quasi) caso di timidezza cronica tra gli accenti, che in maniera schiva fa capolino solo di rado. Molto più frequentemente, infatti, non si fa distinzione tra e si. Avverbio con valore affermativo o pronome riflessivo? Nessuna paura: tanto meglio scrivere si sempre e comunque, senza badare a certe sottigliezze. In fin dei conti, non è forse vero che chi tace acconsente? L’accento ha scelto di tacere, dunque, di riflesso, si acconsente.

 

Infine, potrebbe rivelarsi interessante monitorare l’uso dell’apostrofo davanti alle date, che ha tutta l’aria di essere a rischio di estinzione. Dal contesto dovrebbe essere facilmente desumibile che, parlando delle agitazioni del 68, il riferimento è ai movimenti del 1968 piuttosto che al suicidio di Nerone. Tuttavia un apostrofo non guasterebbe, giusto per dissipare ogni eventuale dubbio. 

 

Altre espressioni sarebbero degne di menzione in quanto illustri esempi di valorosa anarchia grammaticale. Tra tutte, troneggia l’intramontabile *c’è n’è.  E a scrivere c’è n’è ce ne vuole.

Mi si stringe il cuore a pensare alle mie amiche francesi, arrivate qui in Italia perfettamente in grado di padroneggiare il loro italiano, e restituite alla Francia con qualche pecca nella loro grammatica, contagiate anche loro dall’accento-mania.

È evidente: sono ossessionata dagli accenti e dagli apostrofi. Al contrario, mi curo molto meno delle acca sparate a vanvera qua e là (per distrazione, of course): tanto in italiano l’acca è muta, non dirà a nessuno degli errori commessi.

Sento che la mia cura sta già facendo effetto. Sto diventando imperturbabile.

In realtà avrei ancora un problema irrisolto con l’uso delle virgole, ma devo cercare di non pensarci.


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