«Ergastolo». È questa la richiesta di condanna che la procura di Catania ha chiesto per Salvatore Di Grazia. L’uomo, 80enne, è accusato dal pubblico ministero Angelo Busacca di avere ucciso occultato il cadavere della moglie Mariella Cimò. Il delitto si sarebbe consumato dopo una lite tra i coniugi. Un diverbio forse finito nel sangue che dietro le quinte nasconderebbe una storia fatta di presunti tradimenti e dissidi economici. Il corpo della donna non è stato mai ritrovato e il presunto assassino ha sempre sostenuto la tesi dell’allontanamento volontario dichiarandosi innocente. Cimò scompare dalla villa di San Gregorio il 25 agosto 2011, mentre il marito decide di denunciare la scomparsa il 5 settembre successivo.
Dietro gli ultimi dissidi ci sarebbe stata anche la vicenda della gestione dell’autolavaggio self service. Un’attività commerciale di Cimò in cui però lavorava Di Grazia. Secondo l’accusa la vittima avrebbe avuto l’intenzione di vendere mentre il merito era assolutamente contrario perché, sostengono gli investigatori, utilizzava la la struttura per «incontri legati a relazioni extraconiugali». Tra il 24 e il 26 agosto il telefono di Di Grazia diventa bollente. A chiamarlo è Pina Grasso, donna delle pulizie che nel giallo del presunto omicidio è finita imputata e condannata a un anno per favoreggiamento dell’uomo. Secondo l’accusa la colf, che avrebbe avuto una relazione con l’imputato, lo avrebbe aiutato nel tentativo d’insabbiare le indagini, almeno durante le sue prime fasi.
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