Dopo un forfait andato avanti per quasi sei mesi, il maggiore De Chirico, in passato a capo della compagnia dei carabinieri di Partinico, ha risposto alle domande di accusa e difesa. «Teste principale della procura? Si è parlato del niente», osserva il cronista
Caso Maniaci, la testimonianza di chi guidò le indagini Ingroia: «Abbiamo avuto prova del deserto probatorio»
«Ritengo che il 95 per cento dell’esame del teste sia inutilizzabile, sarà il giudice a verificare il residuo cinque per cento, che forse non c’è neanche». È un clima da subito incandescente, a giudicare dalle parole dell’avvocato Antonio Ingroia, quello che si respira dentro l’aula della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, dove si sta celebrando il processo a carico del giornalista Pino Maniaci. Quella di stamattina è stata un’udienza campale, particolarmente attesa per via del testimone chiamato a rispondere, che si è fatto attendere per circa sei mesi, a causa di continui imprevisti professionali. Se l’esame condotto dalla pm Amelia Luise ha avuto per tutto il tempo un ritmo armonioso ed equilibrato, il controesame cui è stato sottoposto il maggiore Marco De Chirico è stato invece caratterizzato da picchi di nervosismo da parte della difesa del giornalista.
L’ex capitano dell’arma di Partinico ha risposto in merito alle indagini condotte all’epoca, che hanno portato il cronista di Telejato a giudizio per i reati di tentata estorsione e diffamazione. Eccolo, finalmente c’è, seduto lì sul banco dei testimoni. Sfoglia un grosso faldone, pagine e pagine in cui ricerca progressivi, annotazioni, numeri per raccontare dei pedinamenti e delle intercettazioni a carico di Maniaci, che per l’accusa avrebbe chiesto soldi agli ex sindaci di Partinico e di Borgetto, sotto la minaccia di continui attacchi mediatici attraverso i suoi servizi televisivi in caso di rifiuto. Un lungo elenco di episodi e soprattutto di intercettazioni, che troppo spesso il maggiore finisce per raccontare nel dettaglio dei contenuti, innescando la disapprovazione e l’ira della difesa. Che, presa la parola, per circa un’ora gli rivolge domande precise a un ritmo piuttosto serrato.
La prima cosa che l’avvocato Ingroia gli chiede è se, rispetto alle conversazioni intercettate in cui Maniaci fa riferimento a presunti rapporti illeciti tra alcuni consiglieri comunali e mafiosi locali, siano stati poi effettuati degli accertamenti per chiarire se lui avesse ragione o se fossero solo illazioni. Ma il maggiore all’inizio sembra glissare. Ingroia si fa più insistente: le dichiarazioni di Maniaci sono state verificate oppure sono state ritenute inattendibili a priori? «Sono state considerate per gli accertamenti successivi», risponde il teste. Ma rispetto ai consiglieri comunali tirati in ballo dal giornalista, ci fu da parte dell’arma una richiesta, un input per fare qualcosa nei loro confronti? Ci sono state deleghe da parte della Dda di Palermo per procedere contro di loro in particolare? «No». Un altro nodo, poi, riguarda i servizi giornalistici di Telejato acquisiti in fase d’indagine. Il maggiore precisa che non furono presi e visionati tutti i servizi andati in onda fino a quel momento, ma solo alcuni. «Fu fatta una selezione, ne sono stati acquisiti circa quattro-cinque sulla base dell’attività svolta», spiega.
Solo quelle rilevanti, insomma, ai fini di quell’indagine precisa. Perché allora acquisire anche la telefonata di solidarietà dell’allora premier Matteo Renzi al giornalista cui era stata appena bruciata l’auto e uccisi i cani? Che attinenza c’era con le accuse che gli vengono mosse oggi? «Per chiarire la natura degli atti intimidatori subiti da Maniaci. Nessun tipo di minaccia è giunta da contesti della criminalità organizzata – spiega -. Volevamo far emergere che lui ne fosse consapevole ma pubblicizzava che fossero episodi legati alla sua attività giornalistica». Tra i servizi e le interviste acquisite, poi, chi indagava notò effettivamente se i picchi di attacchi contro l’amministrazione sparivano nel momento in cui avveniva la presunta cessione di denaro al cronista? «Probabilmente sì, non abbiamo visto tutti i servizi – dice -. Abbiamo visionato solo i filmati di rilevanza investigativa, non c’è stata questa continuità. Si attaccava tutti, in alcune circostanze, però, quando non c’era stata la dazione di denaro il servizio era ancora più incalzante, più incisivo». Ma sembra, intanto, che gli attacchi continuassero arbitrariamente.
Ad accendere più di tutto, però, i toni in aula sono le domande della difesa riguardo un video con il logo dei carabinieri diffuso il giorno stesso in cui fu divulgata la notizia dell’indagine che coinvolgeva anche Maniaci, fatto circolare tra i media e contenente stralci di intercettazioni anche di natura privata che non facevano neppure parte del provvedimento cautelare emesso nei confronti del cronista. Chi montò quel video in quel modo? E perché? Chi lo diffuse? «Io non regolo i rapporti con la stampa, ma il comando provinciale», dice subito il maggiore De Chirico. La difesa prova a insistere, ma viene bloccata prima dall’opposizione del pubblico ministero poi dal giudice stesso, che non ritiene pertinente la questione: «La domanda non è ammessa, non stiamo facendo un processo per il reato di rivelazioni d’ufficio, fate un esposto e il maggiore sarà sentito come teste. In questo processo non è rilevante», mentre la difesa sembra convinta del contrario e che determinate cose rientrassero in un’ottica di accanimento mediatico nei confronti di Maniaci.
Seguono le domande su Silvana Saguto, l’ex colonnello Nasca, il generale Amato. Anche queste, però, accolte da opposizioni e ritrosie. Cosa c’entrano questi nomi col processo? «Riteniamo che tutto questo procedimento nasca non appena Maniaci e Telejato decidono di occuparsi delle Misure di prevenzione e dell’ex giudice Saguto», spiega allora l’avvocato Bartolomeo Parrino. Ma il maggiore De Chirico spiega di non aver mai avuto una conoscenza diretta con queste persone. «È andata come immaginavamo dovesse andare, il nulla più totale, il vuoto probatorio più assoluto – commenta, a margine del processo, l’avvocato Ingroia -, direi proprio che è venuto fuori il deserto probatorio dalle dichiarazioni del capo team, diciamo così, investigativo dell’epoca, non ci sono elementi concreti e obiettivi. Infatti il teste ha cercato di introdurre delle interpretazioni personali delle intercettazioni, che non sono consentite. Per la vicenda del video, sono dispiaciuto che il giudice non ne abbia invece colto la rilevanza, non consentendomi di fare le domande al maggiore. Resta quindi il mistero di chi lo abbia effettivamente predisposto, facendolo tuttavia circolare la sera stessa della notizia dell’indagine, con violazione del segreto investigativo».
Palesa tranquillità anche Pino Maniaci: «Se questo è il teste principale della procura – osserva -, credo che ci siano dei seri problemi, perché abbiamo parlato del niente, del nulla proprio. Abbiamo un maggiore dei carabinieri che è anche psicologo, pare, perché cercava di capire quello che io dovevo o volevo fare. Si è parlato tantissimo di intercettazioni personali non inerenti al processo e abbiamo scoperto anche che quel famoso video, diffuso in tutta Italia e anche all’estero, non fa parte del processo, ma intanto fu diffuso e il maggiore non sa parlare neppure di chi l’abbia montato».