Proseguono le discussioni nel processo per disastro ambientale, omissione di atti d'ufficio e falso ideologico all'interno dell'ex facoltà etnea. Protagonista oggi Guido Ziccone, legale dell'università nella duplice veste di responsabile civile e parte offesa. L'avvocato presenta un punto di vista differente su quanto sarebbe accaduto ai vertici dell'ente. E lancia un'accusa poco velata a quanti negli anni precedenti a quelli presi in esame nel processo hanno gestito il dipartimento di Scienze farmaceutiche
Caso Farmacia, l’arringa dell’Ateneo Ziccone: «Unict baronale, ma una famiglia»
«L’università è una famiglia». Anche se al suo interno permangono i baronati. L’avvocato Guido Ziccone, legale dell’ateneo di Catania, parla sulla base di un’esperienza lunga mezzo secolo all’interno dei dipartimenti etnei. Il ruolo dell’ente nel processo per disastro ambientale colposo, omissione di atti d’ufficio e falso ideologico all’interno dell’ex facoltà di Farmacia è quello duplice di parte offesa e responsabile civile. «Ho insegnato per 50 anni, ho conosciuto tanti colleghi e tanti peccati, ma non mai pensato che l’università di Catania potesse essere considerata aprioristicamente una fabbrica di veleni». La sua arringa, tenuta oggi davanti ai giudici chiamati a decidere le sorti di un processo che ha segnato per sempre la storia dell’ente, parte da una solida certezza: «L’università e i professori difesi erano pronti e disponibili ad anticipare in questo processo la risposta ai numerosi quesiti». Domande e inquietudini sorte all’alba dell’8 novembre 2008, quando la Procura sequestrò i locali dell’edificio 2 della cittadella.
«L’università – spiega Ziccone – si è presentata indicando come possibili testi due docenti», un epidemiologo e un oncologo. Richiesta rifiutata dal pubblico ministero che fino allo scorso settembre ha curato il caso, Lucio Setola – passato adesso al ruolo giudicante e sostituito dal collega Giuseppe Sturiale – che viene più volte criticato, soprattutto per aver chiesto l’archiviazione per il filone principale, quello relativo alle presunti morti. Dato che nel procedimento in fase di chiusura il magistrato non era interessato a dimostrare il collegamento diretto tra il presunto inquinamento e i decessi susseguitisi, «abbiamo rimesso la decisione al collegio». Che, suggerisce l’avvocato, in camera di consiglio potrebbe chiedere di effettuare gli studi di incidenza tumorale proposti. Una prova concreta, secondo Ziccone, al contrario delle deposizioni dei parenti dei dottorandi e dei lavoratori deceduti – il legale cita spesso la testimonianza di Maria Lopes, madre di Agata Annino – nelle quali non sarebbe riscontrabile «nulla sulla dimensione oggettiva di quanto accadde». «Il giudizio – prosegue – non si può fare sulla base di sensazioni soggettive».
Alternandosi più volte in veste di parte offesa e responsabile, secondo Guido Ziccone ci sono alcuni «difetti processuali che andrebbero corretti». A cominciare da quelli per l’accusa di omissione di atti d’ufficio per la quale non sarebbero chiaramente indicati né i soggetti né le presunte omissioni. Passa poi all’esame delle indagini e dei complessi rilievi compiuti dai periti del giudice per le indagini preliminari compiuti nel 2009; si tratta di studi che i consulenti del gip giudicarono di difficile interpretazione, anche perché lo scenario del presunto luogo dell’illecito era stato stravolto dai lavori di rifacimento dell’impianto fognario. Proprio su questi si basa l’accusa di falso ideologico nei confronti di due degli otto imputati, l’ex direttore amministrativo Antonino Domina e lex dirigente dellufficio tecnico Lucio Mannino. Secondo il pm, i due avrebbero taciuto i reali motivi per i quali è stato chiesto il via libera al Consiglio d’amministrazione, adducendo a una semplice risalita di umidità. Eppure, sostiene il difensore, tutto era desumibile dalla relazione tecnica consegnata.
Ma il vero nodo da sciogliere – quello che anche per le parti civili è il cuore del procedimento – è l’accusa di disastro ambientale colposo. Secondo la ricostruzione dell’avvocato, è solo nel 2004 che emergono sempre con maggiore forza le problematiche. «Non è che l’università ha finito di essere baronale». Ziccone spiega così la mancanza di azioni precedenti, quasi accusando quanti si sono succeduti nel passato a capo del dipartimento di Scienze farmaceutiche come i veri colpevoli per aver taciuto sulla gestione poco professionale dei laboratori. Quanto avviene dopo – le lettere, i verbali, le analisi, tutto quello che per il pm sono la prova di un atteggiamento attendista dei vertici dell’ateneo – dalla difesa viene considerato segno che qualcosa veniva fatto. «Cosa si rimprovera? Di aver seguito con disperazione e accanimento» la ricerca delle cause di malesseri e sospetti? A un certo punto, prosegue, «il convincimento che le lamentele potessero essere collegate a qualcosa di strutturale prende piede». E quando si risale all’ipotesi che il problema risieda nel sistema fognario, si agisce con rapidità. Un’accelerazione improvvisa che però, sottolinea Ziccone, viene fraintesa. «Nessuno nelle indagini oggettive dice che c’è un sito inquinato». E dunque «dal 2004 al 2007 – gli anni presi in considerazione dal processo, ndr – il fatto non sussiste», anche perché «dal 2004 le cose cambiano in maniera arci-radicale», esclama con foga. Per il docente di Diritto penale gli imputati «non meritano di essere rimproverati». Gli otto «hanno capito man mano che potevano capire». Ma, chiede Ziccone al collegio, nel caso in cui dovesse essere riconosciuta la loro responsabilità, l’ateneo – la grande famiglia – non dovrebbe essere chiamata come corresponsabile degli eventuali reati.