Celle piene, strutture fatiscenti, organico insufficiente. I problemi delle carceri italiane sono numerosi e su tutto pesa l'inadeguatezza della risposta politica. A Catania, l'Unione camere penali ha visitato le due strutture di Bicocca e piazza Lanza, dove «si raggiunge il doppio, se non il triplo, della capienza massima», spiega l'avvocato Giuseppe Passarello
Carceri catanesi sovraffollate e inadeguate Piazza Lanza come un inferno medievale
«Le carceri catanesi sono caratterizzate da un particolare sovraffollamento, soprattutto a piazza Lanza». Il parere di Giuseppe Passarello, avvocato membro dell’Unione camere penali, è netto: troppi detenuti, nel sistema c’è qualcosa che non va. Assieme ad altri cinque colleghi ha visitato le due strutture penitenziarie catanesi, quelle di Bicocca e piazza Lanza, per conto dell’Osservatorio carceri.
«Il problema principale è nella struttura di piazza Lanza; lì si raggiunge il doppio, se non il triplo, della capienza massima». A destare maggiore preoccupazione è il settore Nicito, quello riservato ai detenuti in isolamento. «E’ un reparto infernale – racconta l’avvocato – Non è mai stato ristrutturato a memoria d’uomo ed è dotato di pochissime aperture. Sono condizioni detentive medievali», afferma con decisione. Una struttura oramai centenaria – è stata edificata nel 1911 – non più idonea, soprattutto se deve contenere un numero spropositato di detenuti, come avevamo raccontato nell’ottobre dello scorso anno.
Ma anche a Bicocca i problemi non mancano. Complesso più recente rispetto a quello in centro città, è dotato anche di celle singole e doppie. «Qui il problema del sovraffollamento si nota di meno, ma basta aggiungere già un’altra persona in una cella singola e i disagi ci sono lo stesso», spiega il legale.
Già lo scorso maggio i Radicali avevano denunciato le pessime condizioni sopratutto del penitenziario di piazza Lanza. Le proteste erano nate dopo la risposta giunta dalla commissione Giustizia all’interrogazione parlamentare presentata dal deputato del Partito democratico Rita Bernardini dopo la visita nella casa circondariale del 31 dicembre. Al centro della contestazione proprio le condizioni drammatiche di detenzione. Gli stessi componenti della Camera penale hanno intrapreso una staffetta dello sciopero della fame per denunciare lo stato divenuto oramai critico in tutto il Paese.
Sul fronte della sorveglianza, nonostante gli endemici problemi di organico, almeno dal punto di vista del rapporto con la polizia penitenziaria qualcosa sembra essere cambiato. «Prima tutti gli esterni – giornalisti, parlamentari, avvocati – venivano visti come intrusi», afferma Passarello. Adesso il motto del corpo Despondere spem minus nostrum (Garantire la speranza è il nostro compito) sembra un po’ più vero. «Al vecchio ruolo del secondino, si sostituiscono figure con strumenti psicopedagogici, personale più preparato», spiega il legale, che però precisa: «I mezzi sono quelli che sono. Si soffre».
Le relazioni che i legali che in questi giorni sono impegnati nelle visite verranno raccolti dalle singole sezioni dell’Unione camere penali. Elaborati dall’Osservatorio, i dati diventeranno un dossier che verrà pubblicato in autunno. «I margini per migliorare ci sono, a Catania si dovrebbe iniziare proprio dal reparto Nicito che andrebbe soppresso o almeno modificato ex novo – afferma il legale – Al di là di questi interventi il discorso si sposterebbe sulle misure alternative, proprio per evitare sovraffollamenti del genere». E qui entrerebbe pesantemente in gioco quella politica che molto spesso si mostra inadeguata nei confronti del problema. A cominciare dal tanto discusso decreto Svuota carceri. «Finora in tutta Italia ne hanno usufruito solo in sette», denuncia Passarello. La normativa prevede che la richiesta di usufruire dei domiciliari può essere avanzata se la pena residua è di diciotto mesi. Ma passaggi burocratici e attese di pareri richiedono attese anche di un anno e mezzo, per cui diventa tutto inutile o quasi.
«Mancano strutture e strumenti politici», conclude l’avvocato. E una domanda che la società dovrebbe smettere di porsi, ribaltando per una volta il punto di vista: «Tanto a me, in carcere, chi mi ci porta?».