Capo Scirocco, sinfonia d’amore e morte La Sicilia lasciva di Emanuela Abbadessa

Capo Scirocco è il romanzo d’esordio del 2013 della grande casa editrice milanese Rizzoli, accolto con fervore dalla critica e dai lettori. E’ un romanzo dalla trama accattivante e travolgente tra l’opera lirica ottocentesca e la tradizione letteraria siciliana, ambientato in Sicilia a fine Ottocento in un luogo di fantasia da cui trae origine il titolo. E’ una storia d’amore e di musica, di nobiltà dei sentimenti e di sogni infanti, di costruzione e di rovina, di un destino beffardo che prima dà e poi toglie.

Incontriamo Emanuela Ersilia Abbadessa – «una donna senza sfumature», come le piace definirsi, il cui alter ego nel romanzo non è donna Rita ma piuttosto Mimì – in occasione del tour di presentazione dello stesso, che l’ha riportata in «quel triangolo di terra in mezzo al mare, così remoto» e ci racconta «la grande sensazione di onnipotenza di scrivere», la favola di cui è protagonista – anche se ammette di «avere i piedi ben piantati per terra» – e la delusione di un concorso di ricercatrice perso presso l’Università di Catania che le ha cambiato la vita, forse non in peggio.

Musicologa, addetto stampa dell’Orchestra sinfonica di Savona, collaboratrice de La Repubblica e adesso scrittrice esordiente. A Catania la si ricorda come docente di Storia della musica dell’ex facoltà di Lingue e letterature straniere. Come è passata dalla cattedra universitaria alla carta stampata?
«Ho insegnato all’Università di Catania fino a sette anni fa. Ho perso il concorso per il posto di ricercatore universitario che avrebbe dovuto sanare il mio precariato e ne ho riportato una delusione; non nei miei confronti perché ero certa di essere la più preparata e la più adatta a ricoprire un ruolo che avevo già occupato per una miseria economica, per quattro anni su due sedi, Catania e Ragusa. Ho laureato oltre sessanta studenti. La delusione è stata talmente cocente che ho caricato la macchina modello emigrante e sono andata a Savona dove ho fatto un lavoro al di sotto delle mie aspettative e credenziali. Evidentemente ho commesso degli errori ma certamente il sistema ne ha fatti nei miei confronti. A Savona poi, sola in una casa con un gatto, mi è venuta voglia di scrivere – è un modo per tenermi compagnia – e ho abbozzato sia racconti che romanzi. Avevo iniziato, nel frattempo, a collaborare con Repubblica. Capo Scirocco è nato un po’ per caso. Michele Rossi, responsabile narrativa moderna e contemporanea italiana della Rizzoli aveva letto qualcosa di mio. Ha voluto incontrarmi e dopo una lunga chiacchierata, ricca di memorie familiari, è venuta fuori l’idea di questo romanzo e mi ha chiesto di scriverlo».

La Rizzoli, giusto nella persona di Michele Rossi, ha affermato in un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, che il suo è il romanzo del 2013 sul quale la casa editrice punta maggiormente. Quali sono le sue aspettative?
«Ovviamente spero che Capo Scirocco vada bene e l’accoglienza che ha avuto presso la critica e presso i lettori supera ogni mia aspettativa. Voglio precisare che ho deciso di mettere nero su bianco questa storia per due motivi. Il primo mi porta ad una frase -pronunciata da un mio amico – che è diventata il mio faro: “Se hai una storia, devi raccontarla e, se l’hai raccontata, non ti appartiene più”. E questo mi è sembrato molto bello. Il secondo motivo riguarda la voglia di imparare, in questo caso come si fa un libro. Ricordo che quando insegnavo Storia della musica, spesso i miei studenti mi portavano registrazioni con loro composizioni – il più delle volte fatte in garage- chiedendo un mio giudizio e in molti di questi prodotti c’era il germe di un’ottima idea. Io, da musicologa, conoscevo esattamente la filiera tra una buona idea musicale e il fare della stessa un oggetto venduto sul mercato. Dunque, mentre avevo idea di quali fossero i processi di razionalizzazione nella musica, sconoscevo quelli in editoria. Mi sono dunque detta che mal che fosse andata, avrei imparato come si fa un libro. Il resto è un plus ed io mi sento la persona più felice del mondo».

Una trama prepotente e affascinante tra il melodramma e la letteratura sicula, una scrittura fluida e distesa, una struttura che ricorda un libretto dell’Opera. Passioni totalizzanti, sogni spezzati, misticismo, paesaggi sensuali e il binomio eros/thanatos, caro alla letteratura. Insomma «cose … cose … cose dei pazzi»; cosa l’ha ispirata?
«Le mie memorie familiari, seppur in senso lato. La vicenda di Luigi, il protagonista maschile, si ispira alla storia di mio suocero, giunto a Catania da Caltagirone nei primi anni del Novecento. Aveva una garbata voce da tenore e venne accolto da una vedova che gli affittò una camera da letto e gli diede la possibilità di studiare, di prendere un diploma di ragioniere. Quando il mondo era più semplice, cose di questo genere succedevano con frequenza. Nel momento di dare un nome a Luigi, ho pensato invece al mio bisnonno, originario della campagna romana, come il personaggio del romanzo, il quale mette la musica in valigia e da Subiaco si trasferisce in Sicilia, incantato da storie di sirene, ciclopi, ninfe e mostri marini».

Il suo libro è ambientato in una Sicilia mitizzata, in una società lontana per usi e costumi, in una Trinacria ottocentesca di cui si ha memoria solo nella letteratura. Qual è stata la sfida più difficile che ha dovuto affrontare collocando la vicenda narrata in un passato ormai remoto?
«L’abbigliamento. Ho dovuto studiare tantissimo in merito ed ho scoperto che c’era uno stile piuttosto eclettico in quel periodo ma, mi sono molto divertita a farlo, a scoprire, a studiare».

Lei vive a Savona da anni ma la sua opera è intrisa di Sicilia. Profumi, sapori, paesaggi e contraddizioni di cui solo la bella isola è capace. Cose le manca e cosa non rimpiange della sua terra?
«Della Sicilia mi mancano moltissimo i sapori ma non ne rimpiango i problemi, quelli che mi hanno costretta ad andarmene. Problemi soprattutto di lavoro. Al Nord è ancora possibile reinventarsi, stile sogno americano. Il detto “Cu nesci, arrinesci” è purtroppo vero».

Oltre che di Sicilia, il suo romanzo è pervaso dalla musica – Donizetti, Verdi, Beethoven, Chopin, Bellini – e di strumenti musicali sui quali campeggia un pianoforte a coda, «la grande goccia nera». E’ la stessa musica che ascoltava durante la stesura del manoscritto?
«No, ho ereditato da mio marito l’abitudine di ascoltare pochissima musica. Per me la musica è essenzialmente scritta ed è un lavoro. Mi diverto molto a dire che a riguardo sono come i ginecologi: lavoro dove gli altri si divertono».

E, si divertiva più ad insegnare o trova più piacere a scrivere?
«Insegnare mi piaceva sopra ogni cosa e avevo commesso addirittura l’errore di sovrapporre il mio ruolo alla mia vita: non ero me stessa ma la professoressa di qualcuno. Ho dato l’anima ai miei studenti ed anche per questo è stata molto dura lasciare l’università. Non ho avuto figli e mi è capito di sentirmi un po’ materna con i miei studenti; con alcuni di loro ho mantenuto buoni rapporti e sono stati tanti quelli che negli anni mi hanno scritto o sono venuti a trovarmi . Adoravo insegnare ma era una cosa piena di responsabilità. La scrittura è più divertente e mi appassiona tanto. Ricordo che la mattina mi svegliavo all’alba pur di continuare a scrivere Capo Scirocco».

Ha intenzione di proseguire con la carriera di scrittrice?
«Io sono una persona con i piedi ben piantati per terra, il mio colpo di fortuna l’ho già avuto. Mi diverto con questo esempio: a queste prostitute di Hollywood boulevard capita di essere imbarcate da Richard Gere? Ecco, posso dire di sentirmi fortunata come Julia Roberts. Continuerò certamente a scrivere, non perché penso che farò la scrittrice, ma perché ho l’esigenza di farlo. Scrivere mi tiene compagnia, mi riempie la casa, mi fa stare meglio con me stessa. Ho bisogno di ciò che leggo come di ciò che scrivo. Ovviamente se la Rizzoli mi chiedesse di proseguire anche per il pubblico, ne sarei ben lieta».


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