Ad accedere gratuitamente alla struttura sono minorenni e donne in grave disagio sociale. Molte le migranti, alle quali si aggiungono le ospiti del Cara di Mineo. «Abbiamo varie etnie, famiglie provenienti da diverse nazioni», spiega l'ideatore, Fabio Guardalà. «Il parto è un gesto universale». Guarda le foto
Cannizzaro, ambulatorio solidale per donne incinte «Non servono documenti o permessi di soggiorno»
«Dottore, la prima volta mi avevate detto che era una femmina. Poi mi avete detto che era un maschio. Adesso siamo sicuri? Mio marito vuole saperlo». Punya dal lettino sul quale il dottore le fa l’ecografia ride divertita. Ha una trentina di anni e i capelli raccolti in una lunga coda. Viene dallo Sri Lanka, come molte delle pazienti dell’ambulatorio solidale creato all’interno dell’ospedale Cannizzaro. Un progetto unico nel suo genere, un esperimento avviato finora solo a Catania, nato dall’impegno di uno dei dirigenti medici del reparto di Ginecologia, Fabio Guardalà, e da un gruppo di professionisti che prestano servizio a titolo gratuito.
L’idea è venuta a Guardalà nel 2012, in occasione di uno sbarco di migranti. «Dalla Regione giunse una telefonata, io ero di guardia – racconta – “Ci sono 24 gravide da sistemare, voi quante ne potete prendere?”, mi hanno chiesto. Io le ho fatte arrivare tutte qui», sorride. Da quel momento prende forma non solo il progetto di assistenza a donne in difficoltà, ma anche un piano di integrazione innovativo. Il principio è semplice: «Se si integra la donna, se il bambino nasce inserito nell’ambito sociale, si evita che ci siano fenomeni di razzismo bilateralmente. Il piccolo si sentirà parte della società, non si sentirà mai immigrato».
L’ambulatorio solidale opera grazie ai ginecologi Guardalà e Alessandra Coffaro, all’ostetrica Patrizia Barresi, all’infermiera Giovanna Tinnirello sotto il coordinamento del direttore del reparto, Paolo Scollo. Assieme a loro, qualche altro volontario. Il centro si fonda sul one shot, «tutto in una volta». Ogni venerdì le donne incinte seguite possono effettuare gli esami necessari in un solo giorno: prelievo del sangue, ecografia, visita, tracciato. «Così è più semplice per loro essere seguite». Come diventa sostenibile economicamente un progetto del genere? Per ogni attività chirurgica, e il parto rientra in questa categoria, «la Regione paga una quota agli ospedali. Noi offriamo gratuitamente il percorso, fidelizziamo le pazienti che poi vengono a partorire da noi, così rientriamo nei costi sostenuti». «Accedono tutte le minorenni – elenca Guardalà – le donne in grave disagio sociale, che hanno un compagno tossicodipendente, in carcere, o più di tre figli; e poi le gravidanza in abbandono», quelle che nei primi cinque mesi di gestazione non hanno eseguito alcun controllo. I due ginecologi non effettuano interruzioni di gravidanza, «cerchiamo di lavorare sulla formazione. Comunque all’interno dell’ospedale c’è un servizio per l’applicazione della 194».
Nei corridoi e nelle sale parto prende vita un incrocio multiculturale in cui è difficile imbattersi altrove. «A noi non importa dei documenti e dei permessi di soggiorno», il medico è categorico. «In italia non c’è bisogno di alcun documento, la gravida può restare nel territorio fino a due anni dopo il parto e si può ricongiungere con il partner. Esiste un codice Stp (Straniero temporaneamente presente, ndr) per cui la paziente può avere accesso a tutti i servizi sanitari». Da otto mesi l’ambulatorio ha anche avviato un protocollo con il Cara di Mineo, il centro per richiedenti asilo nel Calatino.
Lucia passeggia in attesa del tracciato. «Vuoi un panino al latte?». Ne offre uno a ogni nuova arrivata, tirandolo fuori da una borsa che sembra senza fondo. Alle altre donne con lei in attesa del turno racconta come i suoi parti siano sempre improvvisi: «L’ultima volta mio figlio stava nascendo in macchina». E la strada da San Pietro Clarenza la spaventa un po’, teme che stavolta sua figlia abbia più fretta del fratello nato 16 mesi fa. Un’altra paziente accanto a lei parla al telefono in spagnolo; ogni tanto singhiozza e si solletica la pancia tentando di calmare il suo bimbo. Dall’altra parte della sala d’aspetto c’è Pulvir; non parla italiano, viene dallo Sri Lanka e l’amica che è con lei teme che non capisca in quale ambulatorio debba andare. «Ci penso io», le risponde Giovanna Tinnirello prendendola sotto un braccio per poi guidarla fino alla stanzetta. Queen, una giovane nigeriana, fissa i numeri sulle porte: «Due, tre, quattro», ripete esercitandosi nella pronuncia. La sua connazionale reagisce con uno sbuffo che tradisce un po’ di nervosismo quando le viene chiesto come chiamerà il suo primo figlio. «Ancora non lo so», esclama.
«Questa integrazione funziona – assicura Fabio Guardalà – Abbiamo varie etnie, famiglie provenienti da diverse nazioni. Il parto è un gesto universale ma, come tutte le attività della vita, ha delle sue peculiarità». E si scopre che tradizioni e luoghi in apparenza molto lontani tra loro hanno molto più in comune di quanto non sembra. Lo precisa Patrizia Barresi. «Le donne cinesi avvolgono i bambini in un lenzuolo rosso. Una volta ho chiesto il motivo, mi hanno risposto che serve a tenere lontani gli spiriti maligni». E aggiunge: «In fondo, non è la stessa cosa che facciamo noi con le camicie della fortuna?».
«Tutto questo funziona con il passaparola – dice Alessandra Coffaro – Qualcuno ci ha trovati anche attraverso Facebook». L’ambulatorio, infatti, ha una pagina social molto seguita. «Il nostro obiettivo è aiutare – continua allargando le mani con un ampio gesto – Cerchiamo di fissare un appuntamento al mese e, nelle ultime settimane, uno ogni circa sette giorni. Le seguiamo fino al primo controllo dopo il parto». «Spesso ci portano i bambini dopo un po’ di tempo, è bellissimo», e l’ostetrica Barresi si apre in una risata. «Ci mandano foto, messaggi. Li vediamo crescere».
La lista d’attesa scorre, altre voci e altre lingue si aggiungono. «Il mio sogno è che questo modello possa essere esportato», sospira Fabio Guardalà. «All’inizio abbiamo avuto qualche problema di organizzazione – confessa – ma siamo riusciti a risolverlo». Nel corso della loro attività, i volontari spesso incontrano delle storie difficili da dimenticare. «Stavamo facendo un’ecografia a una donna nigeriana – racconta l’ostetrica – appena ha visto suo figlio è scoppiata a piangere. Ci ha raccontato che lei era nata da uno stupro e anche il suo bambino era frutto di una violenza». A tante è stata praticata la mutilazione genitale, l’infibulazione. «Loro devono essere seguite con maggiore accortezza», sottolinea. Qualsiasi sia la loro condizione di salute o la provenienza, arriva poi il momento di varcare la soglia della sala travaglio. «Dalla donna che andrà in intramoenia alla ragazzina del Bangladesh che firma con la x, tutte devono partorire e vengono seguite. Nella stessa maniera».