Black Axe, il controesame del primo pentito di Cosa nera «Il gruppo non crea violenza, ma risponde a quella altrui»

«Black Axe non è come ti viene raccontato all’inizio, alla fine uno muore per Black Axe». È tornato a parlare Austine Johnbull, il primo collaboratore che ha rinnegato, una volta finito dietro le sbarre, la sua appartenenza alla Cosa nera di Ballarò, la Black Axe che a Palermo gestiva lo spaccio di droga e il giro della prostituzione. Condannato lo scorso maggio a due anni e otto mesi in abbreviato per il suo ruolo nell’associazione criminale, questa mattina ha risposto alle domande degli avvocati, che hanno dato il via al controesame. Due anni fa, però, la sua visione del gruppo criminale, poi consegnata ai magistrati che lo ascoltavano per la prima volta, era piuttosto diversa. Raccontò, infatti, di una Black Axe che non si occupava di attività criminali: «no spaccio, no metodo, nulla». Era il 23 settembre 2016. E sono tante le contestazioni che i legali oggi gli muovono, a partire proprio da quanto raccontato quel giorno.

Ma lui scuote la testa, dice che non si è contraddetto, che può spiegare meglio adesso. «All’interno ci sono diversi gruppi, alcuni accettano una vita semplice fatta di lavoro, altri gruppi invece sono criminali, sono violenti, spacciano droga e gestiscono la prostituzione – racconta Johnbull -. Parte di Black Axe commette questi crimini. Ma non tutte le persone, non tutti i suoi membri». Malgrado l’uso spregiudicato della violenza da parte della frangia dell’organizzazione che non disdegna di commettere reati, però, i connazionali non hanno paura di Black Axe. «L’associazione punisce chi non fa parte del gruppo e commette qualcosa di sbagliato. Chi non si comporta bene con i Black Axe sarà punito». Ne sa qualcosa anche lui, che avrebbe dovuto ricevere, per decisione solenne del capo del gruppo Cisko, una punizione per un comportamento poco gradito al boss. Ma si dà alla macchia, fino a quando non lo trovano in un bar e lo pestano.

Può vantare, però, di essere rimasto in vita. Una circostanza che non si verifica spesso, specie in Nigeria. Perché si può uscire fuori dalla Black Axe, esistono due modi: una sospensione, cioè un allontanamento dal gruppo criminale; e un’espulsione, che quando scatta esige la morte. «Se sei espulso devi essere ammazzato. Ma questo in Italia non succede, solo in Nigeria, lì ci sono stati tanti Black Axe espulsi, uccisi». È lì, per esempio, che scompare nel nulla il suo amico Kevin, che aveva sparato un colpo per sbaglio contro un membro dell’organizzazione criminale, ma la casualità di quel colpo era stata messa in dubbio e quindi era stato deciso di punirlo. «Hanno portato via lui e la moglie, il giorno dopo la moglie l’hanno lasciata andare, lui non si è mai più visto».

La forza viene usata come strumento di supremazia, in una continua dimostrazione di superiorità e controllo. Ma molto dipende anche dalle circostanze, dal tipo di riunioni in cui si intrattengono i membri e dal tipo di festa, dove le maniera forti subentrano solo nel caso in cui siano presenti anche membri di un altro gruppo criminale e questi si comportino male. Ma sempre in Italia ci si ferma al pestaggio. «Per dimostrare che siamo sempre più forti di altri membri in Nigeria si ammazza, qui si massacra di botte fortemente». Racconta, Johnbull, e rimaneggia, per così dire, i dettagli forniti due anni prima. «Oggi capisco che Black Axe non è stato mai quello che avevo creduto io – dice – Da quando ho iniziato a collaborare alcune persone, miei familiari, hanno subito minacce da Black axe. In questi ultimi mesi mia madre ha ricevuto più volte telefonate intimidatorie in Nigeria». Eppure, non c’è alcun tono di condanna quello che sembra emergere dai suoi racconti. Perché, spiega, non è tanto l’associazione criminale che ti viene a cercare, che ti mette nei guai, che ti rovina la vita, tutt’altro. Sono sempre state le persona esterne, normali, a cercarla, a chiederne l’aiuto. «Black Axe non crea e non cerca problemi, ma li risolve, interviene. Non cerca violenza ma risponde alla violenza altrui».

Silvia Buffa

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