Il ministro dell'Interno ha annunciato «cambiamenti normativi» per l'Agenzia nazionale che amministra e gestisce le proprietà sottratte ai mafiosi. Fra queste, l'idea di renderli acquistabili. Una procedura che, però, è attuabile dal 2011
Beni confiscati, Salvini: «Si potranno mettere in vendita» Ma questa possibilità è già prevista dal codice antimafia
Il lavoro dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che ne amministra 15mila, «dovrà essere implementato»: sarà portato da 70 a 200 il numero degli addetti. Lo ha annunciato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, rispondendo per la prima volta al question time a un’interrogazione sui beni confiscati. Il nostro «sarà il governo dell’antimafia dei fatti» ha detto il vice premier spiegando che non saranno solo aumentate le risorse umane ma ci saranno anche «cambiamenti normativi» per consentire la «messa in vendita dei beni inutilizzati». Una procedura che, in realtà, è già prevista dal codice antimafia anche se poco praticata.
Come raccontato questa mattina da MeridioNews nel caso specifico catanese che vale, però, in generale su tutto il territorio nazionale, la vendita delle proprietà sottratte ai mafiosi che le hanno ottenute attraverso affari illeciti collegabili alle loro attività criminali è già fattibile. La possibilità di metterle a reddito, vendendole o affittandole a privati, è infatti già prevista dal codice antimafia. Allo stato attuale, ad avere questa facoltà sono lo Stato e l’Agenzia nazionale che ne destinano i proventi al Fondo unico giustizia che li distribuisce, poi, fra ministero dell’Interno e della Giustizia e associazioni di vittime di mafia. Dalle dichiarazioni rese dal ministro Salvini non è chiaro, però, se la sua proposta intenda allargare la possibilità ad altri enti competenti o in altre fasi del lungo iter che porta dal sequestro alla confisca e poi, da questa, all’assegnazione o alla destinazione.
Facciamo un passo indietro. All’origine la possibilità concreta di trasformare un bene simbolo del potere criminale in patrimonio comune, c’è l’intuizione di Pio La Torre che, insieme all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni, ha ispirato la prima legge sulla confisca dei beni, nel 1982. Il passo successivo è poi stato, nel 1996, con l’approvazione della legge sul riutilizzo sociale di quei beni. È il 2011 quando nasce il codice antimafia, un testo unico con tutte le norme penali, amministrative e processuali che, all’articolo 48, prevede la possibilità di destinare i beni confiscati alla liquidazione, alla vendita o all’affitto. È all’interno di quello stesso codice che viene introdotto un ente creato ad hoc: l’Agenzia nazionale, appunto, che ha competenze in materia di destinazione e assegnazione dei beni confiscati che fino a quel momento erano affidate, invece, all’Agenzia del demanio.
L’iter che porta all’assegnazione o alla destinazione è però lungo. Dal sequestro preventivo alla confisca passano molti anni. Dilatate sono poi anche le tempistiche per le procedure successive che portano ai vari tipi di riutilizzo. I ritardi e le lentezze sono dovute ai passaggi fra i vari soggetti istituzionali coinvolti che hanno il compito di creare un raccordo tra le sedi centrali del Governo e il territorio sul quale è presente il bene. Dall’Agenzia nazionale al Comune del territorio su cui il bene ricade, fino agli altri enti territoriali competenti, la magistratura e le prefetture. Spesso, nel frattempo, c’è da fare i conti anche con le occupazioni da parte di familiari dei mafiosi o con l’abusivismo di alcuni beni immobili. Per le aziende, invece, qualche volta il problema è che arrivano allo Stato del tutto prive delle capacità operative per essere attive nel mondo del mercato.
I beni, una volta confiscati in via definitiva, entrano a fare parte del patrimonio dello Stato, che può mantenerli per finalità istituzionali o trasferirli agli enti territoriali che possono, a loro volta, gestirli direttamente o assegnarli tramite un bando in concessione a titolo gratuito alle associazioni ma non venderli. Se queste opzioni risultano impraticabili, sono lo Stato e l’Agenzia nazionale ad avere la facoltà di metterli a reddito.