Pietro Bottino, presidente del cda, e Gaetano Sannolo, direttore generale e «factotum» del primo, sono ai domiciliari. Sotto la lente d'ingrandimento della procura, con l'inchiesta Fake bank, un passivo di 38,5 milioni. Guarda le foto
Banca Base, l’istituto di credito con le mani bucate Il «maquillage» dei conti che ha portato al crack
Una banca con le mani bucate, che erogava crediti a chi non aveva le garanzie per poterli restituire. Dietro al crack di Banca Base, secondo la procura di Catania, c’è un sistema di «maquillage» di bilanci, per usare le parole del magistrato Fabio Regolo, e di «pacchiani» tentativi di mistificazione della realtà, per dirla invece con le parole della guardia di finanza. L’inchiesta Fake bank ha portato agli arresti domiciliari Pietro Bottino (classe 1956), legale rappresentante e presidente del cda della banca dall’aprile 2013, e Gaetano Sannolo (classe 1972), direttore generale da maggio 2016 e «factotum» di Bottino. Entrambi, assieme ad altri 18 indagati di cui non sono stati diffusi i nomi, sono accusati di avere partecipato al tracollo di un istituto bancario che ha chiuso con un passivo di 38,5 milioni di euro.
La storia della Banca di sviluppo economico spa comincia nel 2007 con l’investimento di 226 soci. I fondi vengono per lo più dal settore farmaceutico. La svolta arriva due anni dopo: l’apertura degli sportelli di Catania e Misterbianco trasforma il progetto in realtà. Quello che manca, però, «è il controllo sulla capacità di recupero dei numerosi crediti che venivano concessi a chi li chiedeva», spiega il procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro. «La banca nasce con l’obiettivo di finanziare le imprese in un territorio in cui le aziende sono costrette in larga parte a fare ricorso al sistema creditizio – spiega Zuccaro – Però, possiamo dirlo senza mezzi termini, ha fallito». Non solo sul piano ideale, ma soprattutto pratico: su richiesta degli uffici di piazza Verga, il fallimento è stato dichiarato dal tribunale di Catania a dicembre 2018 e confermato ad aprile 2019 in Appello.
Le «scellerate» politiche bancarie non si sarebbero fermate nonostante le ispezioni e le richieste della Banca d’Italia. La prima del 2010, quando gli uomini di Bankitalia rimangono negli uffici di viale XX settembre dal 9 agosto al 22 ottobre. L’esito dei controlli, a poco più di un anno dall’inizio dell’attività, non sarebbe stato incoraggiante. Viene definito, al contrario, «parzialmente sfavorevole» e avrebbe dovuto, per la procura, «portare a comportamenti più prudenti». Che però non vengono messi in atto neanche dalla governance precedente all’ultima.
Così il «peccato originale» viene perpetrato. E nel 2013 le criticità che si trovano davanti gli ispettori di Bankitalia, durante il secondo intervento nel capoluogo etneo, sono peggiori rispetto a tre anni prima. Quando pure di problemi ce n’erano già tanti. Tipo i centomila euro concessi alla Puma logistica di Giovanni e Marco Puma, azienda sequestrata nel 2012 dalla procura di Caltanissetta poiché ritenuta nell’orbita del clan Madonia. «Da subito – evidenzia Zuccaro – l’impresa pratica sconfinamenti nella linea di credito, eppure non vengono presi provvedimenti».
Poi è il turno della Sira spa, il cui socio di maggioranza è Domenico Toscano. L’azienda è proprietaria del Centro turistico La scogliera srl, che gestisce un albergo tra Catania e Aci Castello. «Gli vengono concessi 750mila euro, poi raddoppiati fino a un milione e mezzo, nonostante un’esposizione debitoria pregressa con altre banche». E poi c’è Scaringi, a cui a maggio 2010 vengono affidati 500mila euro e una possibilità di fare scoperture bancarie fino a 200mila euro. La garanzia è l’immobile, valutato cinque milioni di euro, su cui però avrebbero pesato ipoteche per sette milioni.
Infine c’è il nome più noto di tutti: Mario Ciancio Sanfilippo, al quale viene dato un milione di euro, con beni immobili a garanzia per 2,8 milioni di euro, ma debiti pregressi con altri istituti di credito per 8,5 milioni. «Solo a giugno 2017 il collegio sindacale avanza i primi dubbi – sostiene Zuccaro – In altri termini, la banca non serviva a finanziare le iniziative più meritevoli, ma determinati soggetti che meritevoli non erano. Il tutto grazie a una sistematica violazione delle direttive di Bankitalia e a un comportamento volutamente dissennato». Nessuno di coloro che ha ottenuto i crediti risulterebbe indagato, sottolineano i magistrati.
Il crack, però, non starebbe solo lì. Tra le operazioni che avrebbero portato al fallimento della banca, per esempio, c’è la cessione di un credito di cinque milioni di euro alla Cooperfin spa. Che però avrebbe dovuto pagare solo 300mila euro. «Mai versati», aggiungono le forze dell’ordine. Senza contare la vicenda della Protebè spa, partecipata dallo stesso Bottino, che avrebbe dovuto pagare (senza però averlo fatto) 450mila euro per comprare crediti da 670mila euro.
Quando già si andava delineando il profilo finale dell’operazione imprenditoriale di Banca Base, Bottino avrebbe tentato di fare cassa. Per esempio facendo sottoscrivere azioni anche all’esterno della sede di Catania. Si arriva così al convegno romano nell’ambito del quale numerosi investitori hanno aderito al progetto bancario. Nei documenti, però, sarebbe stato contraffatto il luogo di sottoscrizione: da Roma diventa il capoluogo etneo. In un caso anche con l’evidente uso del bianchetto. A febbraio 2018 le nuvole sono sempre più dense e scure. Quello che i magistrati definiscono l’escamotage finale è una lettera ritenuta falsa: cioè quella con la quale il fondo d’investimento britannico Ifina fund avrebbe deciso di investire dieci milioni di euro nella banca catanese. «La lettera con la quale si disponeva il bonifico – afferma Regolo, che ha curato l’indagine assieme alla procuratrice aggiunta Agata Santonocito – era un falso piuttosto grossolano e il fondo, nei termini descritti dal cda, non è mai esistito».