Attentato Addaura e lo spacciatore ucciso dalla mafia L’ordine partì dal carcere: «Se lo pigliano ci consuma»

È il 21 giugno 1989. Una data passata alla storia: è quella scelta dai boss dell’Acquasanta per uccidere il giudice Giovanni Falcone nella sua villa all’Addaura. Per farlo lasciano su uno scoglio un borsone con pinne, muta da sub e 58 candelotti di esplosivo ben nascosti all’interno, a destra della villetta bersaglio dell’attentato. Una sorta di piattaforma sulla quale resta abbandonato, a pochi metri dai bagnanti ignari che si godono l’inizio dell’estate. Francesco Paolo Gaeta all’interno di questo piano criminale non è che un intoppo, un imprevisto. «Era un tossicodipendente che spacciava droga e frequentava la nostra zona, quindi conosceva un po’ tutti noi». A dirlo ai magistrati di Caltanissetta nel 2009 è il pentito Angelo Fontana

Su quel 21 giugno e dei giorni immediatamente precedenti ha moltissimo da dire, Fontana. Fa nomi e cognomi, accusa e punta il dito contro chi in quel piano c’era dentro fino al collo. Lo fa come se lui stesso ne avesse preso parte. Ma non è così e malgrado la ricostruzione di quel tentativo di attentato, ritratta nel 2014. L’inchiesta su quel piano criminale fallito però non si smonta. E resta in piedi anche il racconto dell’omicidio Gaeta, per il quale Fontana viene condannato all’ergastolo. «Ricordo che mio cugino Angelo Galatolo raccontò ai miei zii Vincenzo e Pino che quando era in attesa per consumare l’attentato del dottor Falcone era arrivato sulla piattaforma Francesco Paolo Gaeta, che lo aveva visto e salutato».

Gaeta nota anche la presenza degli altri, compresi Salvuccio Madonia e Nicola Di Trapani, che però non finiranno fra i condannati per il fallito attentato. L’incontro inaspettato solleva subito delle perplessità. In quanto tossicomane, Gaeta era ritenuto un personaggio inaffidabile: «Se a questo lo pigliano, ci consuma a tutti», avrebbe detto Vito Galatolo. «Mio zio Pino voleva che venisse immediatamente avvisato Nino Madonia», all’epoca capo mandamento della borgata marinara. «Ma mio zio Vincenzo Galatolo invece non volle, perché Nino ne avrebbe immediatamente decretato la morte – continua il racconto di Fontana -.  Era un ragazzo sfortunato, faceva parte di una famiglia numerosa e cercammo in qualche modo di salvaguardarlo». Gli uomini di Cosa nostra cercano, quindi, di riportarlo sulla retta via, impedendogli di drogarsi ancora e di spacciare. Gli trovano addirittura un lavoro come cameriere presso Villa Igiea. Ma dura poco.

Fra il ’91 e il ’92 Angelo Galatolo in un colloquio in carcere racconta al padre Pino che Gaeta era tornato nel giro della droga. «Fu così che dal carcere arrivò l’ordine di eliminarlo – racconta Fontana – perché Nicola Di Trapani, Salvuccio Madonia e lo stesso Angelo Galatolo erano a rischio». La vicenda dell’Addaura, infatti, desta subito molto clamore e tiene col fiato sospeso il paese intero. Tutti i riflettori sono puntati sul giudice Falcone e su Cosa nostra. I boss dell’Acquasanta iniziano a temere che quello spacciatore possa mettere insieme i pezzi e ricollegare gli uomini visti sugli scogli quel giorno di giugno all’attentato fallito. «Fui io stesso a preoccuparmi, insieme ad Angelo Galatolo, dell’eliminazione di Gaeta», dice sempre il pentito nel 2009, confermando di aver fatto parte del commando che uccide lo spacciatore. A nulla servì, per salvare quella vita, il vincolo di parentela fra Gaeta e i Galatolo. 


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