Il caso Antoci, viaggio nell’antimafia sociale «Le persone riconoscono chi sta sui territori»

E chi l’antimafia, in senso ampio, la pratica ogni giorno in diversi territori della Sicilia, che ne pensa del caso Antoci? Quali ricadute ha su quel grande fronte sociale – da Libera ad Addiopizzo, dalle associazioni antiracket all’Arci, fino a realtà locali che operano in quartieri difficili – la relazione della commissione regionale Antimafia sul presunto attentato che l’ex presidente del parco dei Nebrodi ha subito nel 2016?

Dario Pruiti è il presidente dell’Arci Catania, ma sui Nebrodi è nato (a Castell’Umberto) e continua a operare. «Oggi parlare di antimafia sui Nebrodi è complicato – spiega a MeridioNews – è sempre più difficile aggregare persone in nome dell’antimafia, perché è percepita come politica, la politica è ritenuta corrotta, quindi anche l’antimafia viene considerata corrotta». Un sillogismo rischioso che lo diventa ancora di più se calato in alcuni territori. «Qui l’asse antimafia è Antoci-Lumia-Crocetta. Basta pensare alla telefonata che il sindaco di Cesarò (che all’indomani dell’agguato ad Antoci disse che la mafia non c’entrava, ndr) ricevette dall’ex senatore Giuseppe Lumia e come subito ritrattò». Il riferimento è a un passaggio della relazione della commissione Antimafia in cui il primo cittadino Salvatore Calì racconta: «Mi ha chiamato il senatore Lumia. Dice: “Ma che stai dicendo? L’attentato c’è stato… Devi dire che c’è la mafia”». Adesso, in realtà, quella dell’attentato mafioso si è rivelato l’ipotesi meno plausibile.

A questo proposito, Pruiti entra nel cuore di uno dei principali problemi dei Nebrodi: le truffe all’Agea per ottenere i contributi europei destinati all’agricoltura. «Alcune famiglie mafiose si sono infilate in un sistema, quello di fare soldi con i terreni, che esiste da tempo. Tantissimi agricoltori hanno fatto altrettanto, si sono inventati di tutto per ottenere i contributi. Ma il problema – analizza – sta proprio nelle regole alla base di questo sistema che non premiano la produttività. Lì la classe politica dovrebbe intervenire. Sono tutti mafiosi? No. Ma se si fa di tutta l’erba un fascio, le persone non ci credono più all’antimafia».

«Bisogna distinguere per non confondere». Lillo Gangi di Libera Palermo prende in prestito le parole di don Luigi Ciotti. «Siamo consapevoli che queste battute d’arresto del mondo dell’antimafia hanno una forte ricaduta sull’opinione pubblica, ma bisogna anche dire che sono state sollevate da un altro pezzo dell’antimafia». Un modo per ricreare un equilibrio. «Il punto fondamentale è che andrebbero riviste le parole antimafia e legalità perché sono state troppo sbandierate e strumentalizzate. L’unico modo per non perdere credibilità – aggiunge Gangi – è continuare a fare cose belle nei territori, senza perdere di vista la necessità di interrogarsi». 

Insomma, è finita la stagione nata dopo le stragi in cui fare antimafia significava scendere in strada ed esprimere la propria indignazione. «Siamo sempre stati convinti, e oggi più che in passato, che la serietà e la credibilità di ciascuno – commentano da Addiopizzo Palermo – si misuri attraverso ciò che si fa ancor più che con ciò che si dice. Quello che fa la differenza è il lavoro concreto di ogni giorno, rifuggendo da ribalte eroico mediatiche che allontanano la gente da una battaglia che per essere vinta ha proprio bisogno di cittadini comuni». 

Di quegli stessi cittadini che «in situazioni come queste, si disorientano – dice il presidente dell’associazione antiracket Asaec di Catania Nicola Grassi – e guardano con diffidenza a tutte le realtà che orbitano attorno a questo mondo». Lo sa bene lui che ha dovuto fare i conti con i sospetti e i timori dei commercianti dopo la vicenda che ha riguardato Salvatore Campo, il presidente dell’associazione antiracket A.Si.A indagato nell’operazione My racket per estorsione (capo d’imputazione modificato poi in concussione). «È necessario – sostiene Grassi – un momento di ripensamento di tutto il mondo dell’antimafia: bisogna mettere sul piatto gli errori e ripartire da lì, cambiando il linguaggio e mettendo in pratica azioni più concrete». 

Più si va nel concreto e più è facile notare le differenze. «La gente mi dice: “Voi siete un’altra cosa, l’antimafia è tutta collusa” – riporta il presidente dell’Arci Catania – Probabilmente veniamo percepiti diversamente perché non abbiamo mai fatto coincidere l’antimafia soltanto con il rispetto rigoristico delle leggi, ma con la battaglia a un sistema più ampio di oppressione. L’antimafia che ha parlato solo di cultura legalitaria aveva dentro Montante. Crollato Montante è crollato tutto. Solo che crolla tutto il cartello, anche chi con quell’antimafia non c’ha mai avuto a che fare».

A rimanere saldamente ancorato è chi ha più radici nel territorio. «Da vicende come queste non siamo stati per nulla colpiti nella credibilità rispetto a quello che facciamo ogni giorno». Piero Mancuso, il fondatore dei Briganti rugby, ogni giorno da anni porta avanti attività sportive nel quartiere Librino di Catania. «Quando si opera quotidianamente nei territori, le persone sanno riconoscere chi hanno di fronte, capiscono quello che funziona e quello che puzza». Nessuna ripercussione nemmeno per il Laboratorio Zen Insieme a Palermo. «La nostra presenza e il nostro lavoro sul territorio – spiega la presidente Mariangela Di Gangi – non li abbiamo mai legati esclusivamente ai temi dell’antimafia che, anzi, non è proprio una delle nostre parole chiave». Da quelle parti, si parla piuttosto di diritti e di giustizia sociale. «Il piano del simbolico si è svuotato e non è più utile, bisogna andare a un livello più profondo per agire dove le mafie affondano la ragione del proprio potere: nella prevaricazione e nello spacciare diritti per favori. L’antimafia è una questione trasversale che – conclude – non andrebbe nemmeno annunciata».


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