Il tribunale del Riesame di Firenze ha confermato gli arresti domiciliari per Alessandro Panella, l'ex caporal maggiore della Folgore accusato dell'omicidio volontario del parà siracusano. Arriva anche l'ulteriore conferma che «la morte poteva essere evitata»
Caso Scieri, un testimone fu minacciato di morte «Indotto a salire sulla scala per evitare le violenze»
«Quando si resero conto che avevo capito che qualcosa era successo, nel dirmi che dovevo farmi i cazzi miei, mi fecero anche il gesto di stare zitto e subito il Panella mi disse anche: “Guarda che se parli ti ammazzo“». Qualcosa era successo sì: l’allievo paracadutista siracusano Emanuele Scieri era morto all’interno della caserma Gamerra di Pisa nell’agosto del 1999. A parlare con i magistrati che hanno riaperto il caso è uno degli ex commilitoni di Scieri. È lui ad aver sentito le frasi pronunciate dai tre soggetti che adesso sono indagati per l’omicidio volontario del parà. Il testimone, descrivendo uno stato di grande agitazione, ha dichiarato che i tre avrebbero detto di «aver esagerato», di «averla fatta grossa» e di «non sapere come giustificarsi con il colonnello». «Rammento che sudavano freddo, che parlottavano tra loro», ha aggiunto il testimone che, terrorizzato dalle minacce di Panella, avrebbe anche tentato due volte di suicidarsi.
È anche sulla base di questa testimonianza, riscontrata da altre dichiarazioni rese da un altro commilitone, che il tribunale del Riesame di Firenze ha confermato gli arresti domiciliari per l’ex caporal maggiore della Folgore Alessandro Panella, che deve rispondere dell’accusa di omicidio volontario, commesso in concorso con Andrea Antico e Luigi Zabara.
Panella finora si è avvalso della facoltà di non rispondere. Parlava però senza sapere di essere intercettato: «Eh ma su sta cosa mi sa che ce moro in galera se davvero riescono ad incastramme», diceva nel suo accento romano discutendo al telefono con un familiare mentre organizzava il viaggio per tornare negli Stati Uniti, deciso a prendere la cittadinanza americana – e a rinunciare a quella italiana – nel tentativo di sottrarsi alla giustizia. «Se riesco a uscì, non me rivedono più!», dice prima dell’interrogatorio da indagato per la morte di Emanuele.
Una morte che, come scrivono adesso anche i magistrati, «poteva essere evitata, laddove gli fosse stato prestato un immediato soccorso, di cui invece coloro che avevano preso parte alla condotta violenta si disinteressarono». Gli accertamenti tecnici escludono, inoltre, l’ipotesi di una caduta volontaria e affermano che «le ferite riportate al piede (che non sono compatibili con la caduta, ndr) e le tracce di vernice indicano chiaramente azioni condotte da terzi». Atti di prevaricazione e nonnismo, calci e pugni dopo averlo fatto spogliare e prima di indurlo o, addirittura, costringerlo a salire su una scala di ferro alta circa dieci metri.
«È ragionevole ritenere – aggiungono i magistrati – che Scieri sia stato indotto ad arrampicarsi dall’esterno sulla scala della torre per sottrarsi a ulteriori violenze, senza che si possa escludere che terzi lo abbiano colpito dall’interno della scala causandone la caduta». Una volta a terra, i commilitoni avrebbero occultato il corpo di Lele ai piedi della scala addossata alla parete della torre utilizzata per asciugare i paracadute, in uno spiazzo adibito a deposito di materiale di casermaggio in disuso, utilizzando un tavolo per renderne difficile la vista. Il cadavere viene ritrovato infatti tre giorni dopo la morte, in avanzato stato di decomposizione con entrambe le scarpe slacciate, di cui una sola indossata e l’altra trovata poco distante, con il bordo della maglietta bianca arrotolato fino alla base del torace.
«Lo hanno denudato e picchiato, umiliato senza un motivo – attacca Carlo Garozzo, amico di Lele e presidente del comitato Verità e giustizia per Lele – Hanno segnato sul suo corpo l’arroganza e la prepotenza utilizzando la penna dell’ignoranza e della stupidità. Ma il fatto più grave è che lo hanno abbandonato e lasciato morire agonizzante. Ore di agonia, mentre all’interno di quella caserma – continua – si provava a inscenare la farsa, la rappresentazione teatrale. Hanno provato a dipingerlo come un debole, un arrampicatore di scale spinto dai motivi più futili (una tra tutte la ricerca del campo del cellulare), un autolesionista, un suicida. Attendiamo gli sviluppi giudiziari – conclude – certi che la verità, e non una verità, verrà finalmente accertata e i responsabili consegnati alla giustizia. La nostra associazione è pronta a costituirsi parte civile, siamo pronti e lo siamo da 19 anni».