I colossi - tra i coinvolti anche Isab, Rfi, Bonatti e Girgenti Acque - attraverso società di intermediazione dedite al trasporto delle sostanze avrebbero usufruito del sito gestito da A&G nel piccolo paese dell'Agrigentino. Il tutto con la complicità di un laboratorio chimico catanese, che avrebbe fornito falsa documentazione
Camastra, i rifiuti pericolosi dei big nella discarica Prodotti anche da Eni, Raffineria, Fincantieri e Ilva
Eni, Isab, Raffineria di Gela, ma anche Fincantieri, Bonatti, l’Ilva di Taranto, Rete ferroviaria italiana, fino a Girgenti Acque. A contare sulla discarica di contrada Principe a Camastra, paesino di duemila abitanti in provincia di Agrigento, sarebbero stati molti colossi imprenditoriali attivi in Sicilia e non solo. Lì sarebbero arrivati rifiuti pericolosi provenienti da bonifiche, lavorazioni e cicli produttivi. Il sito era gestito da A&G srl, società nei giorni scorsi sequestrata dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Palermo e dalla guardia di finanza di Agrigento, su disposizione della giudice del Tribunale di Palermo, Antonella Consiglio, che si è espressa nell’ambito dell’inchiesta Sepultura della Direzione distrettuale antimafia. Sotto la lente dei magistrati un presunto traffico illecito di sostanze che – autorizzazioni alla mano – non sarebbero mai dovute arrivare a Camastra e che invece avrebbe portato benefici economici a gestori della discarica e alle imprese. I primi per la possibilità di avere un mercato maggiore, i secondi grazie al pagamento di tariffe inferiori rispetto a quelle in vigore per i rifiuti pericolosi.
Tutto nasce a febbraio 2014, quando gli uomini del Noe fanno una prima ispezione nel sito. A portarli a Camastra è un fatto quantomeno strano: in paese da tempo arrivavano i camion di società di intermediazione con a bordo i rifiuti prodotti da aziende che hanno gli stabilimenti da tutt’altra parte. L’apparente «insussistenza di ragioni» per cui rifiuti prodotti fuori dalla Sicilia venissero trasportati fino alla discarica di A&G, «affrontando costi e rischi di trasporto, potendoli evitare qualora si fossero serviti di impianti più vicini ai luoghi di produzione», sarebbe spiegata da quanto trovato dagli investigatori nei computer della società, dalle telefonate intercettate e dalle immagini catturate dalle telecamere nascoste installate, una delle quali scoperta e distrutta da uno degli indagati.
Al centro dell’inchiesta ci sono i vertici dell’A&G. A partire dal legale rappresentante Donato D’Angelo, 57enne originario di Bomba, in provincia di Chieti. L’uomo, da fuori dalla Sicilia, sarebbe stato al vertice del sistema che avrebbe garantito alla società guadagni illeciti. Per farlo avrebbe puntato soprattutto a persone del posto, come nel caso di Calogero e Salvatore Alaimo – rispettivamente direttore tecnico e membro del consiglio di amministrazione di A&G – o di Alfonso Bruno, dipendente tuttofare capace di confrontarsi da una parte con le ditte interessate a scaricare i rifiuti a Camastra e dall’altra con i laboratori d’analisi chiamati a rilasciare le certificazioni di non pericolosità. In una seconda fase – a inizio gennaio 2015, poco dopo il momentaneo sequestro del sito per fini probatori – alla direzione tecnica subentra Pasquale Di Silvestro, anche lui abruzzese e socio di D’Angelo nella Dueco, impresa di Spoltore (Perugia) attiva nel settore delle consulenze in campo ambientale. Sesto indagato e figura ritenuta fondamentale dagli inquirenti è Giuseppe Pistone, 47enne catanese, titolare di Studio Chimico Ambientale, il laboratorio – oggi posto sotto sequestro – che si sarebbe prestato a rilasciare le documentazioni false.
A lui i magistrati imputano innanzitutto l’avere svolto procedure di analisi in pieno contrasto con la normativa. A partire dalla disponibilità a ricevere campioni dalle stesse imprese di intermediazione, invece di recarsi autonomamente a prelevare le sostanze negli impianti. «In palese assenza di qualsivoglia garanzia in ordine all’effettiva attendibilità delle operazioni di campionamento – scrive la gip Antonella Consiglio – il laboratorio mai avrebbe dovuto accettare i campioni forniti dai produttori». Ma il chimico si sarebbe spinto anche oltre: «Ha accettato di falsificare le date di accettazione e campionamento dei materiali», aggiunge la giudice. Contattato da MeridioNews, Pistone si è limitato a dire che «sono tutte falsità e lo dimostreremo». Scorrendo però il decreto di sequestro ci si imbatte in una lunga serie di situazioni poco chiare che lo vedono coinvolto, con Pistone che avrebbe avuto anche due differenti tariffe per i servizi svolti: 360 euro per le analisi su campioni recapitati in laboratorio (procedura illegale), 560 nel caso di prelievo sul posto.
Secondo gli inquirenti il chimico catanese avrebbe agito in maniera anomala anche in altre occasioni, come esplicita lo stesso Pistone in una telefonata con un’altra ditta. «C’è l’azoto nitrico che noi abbiamo 60 con il limite di 30. Come faccio ormai a cambiarlo, che lui (il titolare dell’impianto di smaltimento, ndr) l’ha visto? Non lo posso più cambiare». Per poi pensare un escamotage: «Diciamo che ripetiamo le analisi. Facciamo passare almeno tre-quattro giorni, rifacciamo un altro campionamento, lo diluisce», suggerisce il chimico all’imprenditore.
Pistone, che per i magistrati il più delle volte avrebbe prodotto controanalisi nelle quali si sarebbe limitato ad «approvare i risultati analitici del produttore, senza esperire alcuna analisi sul campione stesso», a un certo punto interrompe i rapporti con A&G. A prendere la decisione di cambiare laboratorio sarebbe stato D’Angelo. Che, stando alle ipotesi formulate dai pm, avrebbe chiesto al fidato Di Silvestro di trovare un altro interlocutore così da «attenuare alcune prassi presumibilmente divenute non più sostenibili, quale ad esempio la joint-venture criminosa con il laboratorio di Pistone». La scelta, in primo tempo, cade sul Cada di Menfi. I rapporti però si rivelano presto complicati e Di Silvestro, dopo avere tentato di esercitare pressioni per indurre i tecnici a rivedere le analisi, decide di cambiare ancora una volta, nel tentativo di trovare un trattamento di maggiore riguardo. Per esempio Sidercem, laboratorio con sede legale a Caltanissetta, al momento non coinvolto nell’inchiesta e tra i cui amministratori risulta esserci l’ex assessore regionale del governo Lombardo ed ex presidente di Confindustria Centro Sicilia Marco Venturi. In un caso Sidercem, svolgendo analisi in proprio, avrebbe classificato come non pericolosi alcuni rifiuti prodotti da Fincantieri a Termini Imerese, poco dopo che sugli stessi si era pronunciato in senso contrario il laboratorio Cada.
Che il rapporto tra A&G e Sidercem fosse rodato lo dimostrerebbe anche una vicenda slegata dal conferimento dei rifiuti a Camastra. A giugno 2015, Venturi e D’Angelo parlano al telefono di un lavoro che Sidercem si è aggiudicato a Civitaluparella, in provincia di Chieti. Un’indagine geognostica per cui è necessario ottenere alcune autorizzazioni da parte della Regione Abruzzo. D’Angelo, forse per riconoscenza, si dichiara disponibile a fare sì che i nulla osta vengano rilasciati il più rapidamente possibile. «Girami questa nota, così io vado a Chieti. Ci capito abbastanza spesso. Mi siedo, gli dico che sono un collaboratore esterno della Sidercem e devo risolvere questo problema», dice l’imprenditore a Venturi.
Sono soltanto alcune delle vicende collaterali di un’inchiesta in cui il confine tra lecito e illecito, in più di un caso, sarebbe stato oltrepassato dagli indagati. Anche nel periodo in cui D’Angelo e sodali sono consapevoli del fatto che gli occhi della Procura siano già puntati su contrada Principe. Nell’estate 2014, per esempio, sarebbe accaduto qualcosa di particolarmente allarmante: nonostante da cinque mesi fosse scaduta l’autorizzazione per depositare rifiuti nella prima vasca della discarica e la stessa fosse ormai colma, dagli impianti petrolchimici di Gela arrivano 50 camion contenenti i rifiuti della bonifica. Secondo la Dda, parte di essi sarebbe fatta scaricare nella sommità della vasca. Nella parte destinata al capping, l’attività di copertura propedeutica alla chiusura della vasca. Stando al progetto, lì sarebbe dovuto finire del terreno vegetale che però gli imprenditori avrebbero preferito non comprare. Pensando, forse, di non essere nelle condizioni di dovere nascondere la spazzatura sotto il tappeto.