Anno giudiziario, l’ex pm Di Matteo tra ricordi e moniti «Serve dimostrare con i fatti di voler cambiare pagina»

«Delle vicende di questo distretto, anche delle più tragiche e complesse, mi sono occupato a lungo da sostituto procuratore della Repubblica di Caltanissetta. Questo è il palazzo di giustizia dove per 18 anni ho poi vissuto l’entusiasmante esperienza di lavorare alla procura della repubblica di Palermo». È iniziato sulla scia dei ricordi che è cominciato il discorso pronunciato questa mattina dall’ex pm Nino Di Matteo, che ha rappresentato il Consiglio Superiore della Magistratura in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario nell’aula magna della corte d’appello di Palermo. Uffici, quelli del palazzo di giustizia palermitano, che lui ha vissuto a lungo e «che nel panorama nazionale e internazionale hanno rivestito straordinaria importanza. Questo è il distretto di Pietro Scaglione, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Alberto Giacomelli, Antonino Saetta, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino».

«È il distretto – prosegue – che ha sopportato sulle sue spalle l’urto più immediato della violenza mafiosa e le innumerevoli insidie politiche e istituzionali di Cosa nostra. Da questi uffici, pur tra mille difficoltà e resistenze interne, è partita nell’immediatezza delle stragi del ’92 una splendida reazione che, nella consapevolezza che la lotta alla mafia è condizione essenziale di libertà e democrazia, ha trasformato Palermo nell’avamposto del contrasto alla criminalità organizzata. Spero che Palermo – dice poi – abbia la volontà e la capacità di continuare a rappresentare l’esempio trainante di una giurisdizione che non ha paura di estendere ai potenti i controlli di legalità. Soffocando sul nascere il pericolo di un ritorno al passato, un ritorno a quegli opachi contesti nei quali trovano terreno fertile stragi e delitti eccellenti. Sono certo che quello spirito del ’92 usato contro il sistema mafioso venga gelosamente custodito nell’animo di ogni magistrato», è il suo auspicio.

Un ritorno al passato che deve essere scongiurato anche dal Csm stesso, specie dopo lo scandalo che lo ha visto protagonista durante lo scorso anno. «Il Consiglio Superiore della Magistratura deve finalmente dimostrare con i fatti di voler cambiare pagina, abbandonando per sempre quelle logiche che lo hanno trasformato in un centro di potere lontano, o addirittura ostile, ai magistrati più liberi, indipendenti e coraggiosi – sottolinea Di Matteo -. I fatti emersi con l’indagine della procura di Perugia ci devono indignare ma non ci possono sorprendere, non possiamo permetterci di essere ipocriti, rappresentano uno spaccato, una fotografia nitida ma pur sempre parziale di una grave patologia che rischia di minare l’intero sistema di autogoverno della magistratura». Una malattia che, alla luce dell’analisi dell’ex pm, si è diffusa come un cancro «con la prevalenza di logiche di clientelismo, appartenenza correntizia o di cordata, di collateralismo con la politica, attraverso scelte dettate dall’opportunità».

Logiche perverse che, per dirla ancora con le sue parole, «hanno allontanato il Csm dalla funzione immaginata dal legislatore costituente e alimentate fuori dal Csm dal comportamento di molti magistrati pervasi dal male oscuro del carrierismo e impegnati in una folle corsa al conseguimento di incarichi politici». Le correnti all’interno della magistratura avrebbero, insomma, subito negli anni una forte involuzione, che ne ha snaturato la sua funzione originaria. «Ciò che è successo rappresenta discredito – dice ancora, tornando sull’inchiesta di Perugia -, ma nello stesso tempo un’occasione irripetibile per ripartire con un nuovo spiritoÈ il momento della svolta, è il momento del coraggio e della responsabilità. Non sarà solo attraverso nuove leggi che si potrà porre rimedio alle cordate, alle cooptazioni dall’alto. Anche la migliore delle riforme non servirebbe a nulla se non si accompagnasse a una svolta radicale dell’etica individuale e di corpo della magistratura. Se si continua a ritenere accettabile ciò che è sempre avvenuto, come se sempre dovesse avvenire, se non ci sarà una rivalsa forte e diffusa dell’etica, non potremo mai uscire dal cul de sac in cui siamo precipitati».


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