Angelo Scandurra, poeta di «grande candore e furenti passioni» «Estraneo alle mode, per lui vita e poesia erano la stessa cosa»

Il poeta dovrebbe essere sacro: lo ricordava Alberto Moravia nella sua commemorazione di Pasolini. Ma oggi non ne abbiamo perso solo uno, e di quelli buoni; in molti abbiamo realizzato con accorata tristezza, esprimendolo subito dopo che la notizia è circolata nelle pagine dei social network, di dover rinunciare per sempre a un amico che è stato espressione non tanto di un modo di intendere la poesia, ma piuttosto del vivere poeticamente. Angelo Scandurra sapeva essere uomo di grande candore e di furenti passioni, lo sa bene chiunque lo abbia conosciuto: come amico, come scrittore, come editore, come amministratore pubblico.

Ci resta la sua poesia, e con quella ci consoleremo, con i versi in cui si percepiscono, in evidenza carnale, tutti gli ardori e i languori di un vitale ed eclettico artista che con discrezione d’altri tempi si era guadagnato una consistente messe di lusinghieri giudizi critici. A Valverde, il paese in cui è vissuto, era riuscito a tenere eroicamente in piedi l’esperimento di piccole e preziose imprese editoriale – dal Girasole Edizioni a Le farfalle – che con piglio nobilmente artigianale si sono distinte per eleganza grafica e raffinatezza di scelte (da Bufalino a Testori, da Bonaviri a Rigoni Stern, da Muscetta a Dario Fo, da Penna a Pound e Antonioni). Lo sanno bene quelli che, come me, custodiscono gelosamente quei libri stampati su carta tirata e cucita a mano, con una maniacale attenzione per la grammatura dei fogli, per le bandelle, per gli inchiostri, e che ne fanno dei piccoli oggetti d’arte e da collezione. 

E con lo stesso frenetico dinamismo, Angelo trascorreva dall’esercizio poetico all’attività di animatore culturale, dall’impegno politico a quello giornalistico. La sua traiettoria artistica era già segnata dal 1971 dalla sua prima raccolta poetica, Bagliori, in cui accecanti lampi di straziante umanità e di vibrante carnalità imprimevano ai versi scarti ora visionari ora dolenti. La sua ricerca espressiva si dibatteva conflittualmente tra la protetta infelicità del ripiegamento esistenziale e gli astratti furori di un uomo innamorato della vita. Ma lungi dall’indossare i panni di un moderno profeta dei tempi, di un Savonarola di fine millennio, egli si immergeva nella realtà con la sobria discrezione di un artista macerato in prima persona dal dubbio, deciso ad affrontare innanzi tutto la sua battaglia in nome di un’umanità offesa e da riscattare, senza per questo ricorrere al contrabbando di ideologie o a esibizionistici proclami di solidarismo.

Una poesia visionaria, la sua, che oscilla tra il dolente e straziato ripiegamento dell’uomo di fronte alle ferite di una Storia, che porta con sé solo stimmate di violenza, e l’inarcatura repentina e imprevedibile di scatti passionali e ansie redentrici, ora angosciata ora calata in una dimensione fiabesca e innocente, come nel rimpianto di un paradiso perduto o nella tensione di un ritorno alle radici dell’uomo. Il suo itinerario assomiglia quasi alla macerante esperienza di un francescanesimo laico, tra ribellismo e rassegnazione, che gli ha consentito di dar voce a una poesia autenticamente civile. E da militante della parola, scrutava e scavava il linguaggio alla ricerca di quelle incrinature, di quel montaliano «anello che non tiene» in grado di farci percepire sensibilmente il solido nulla delle cose.

Nelle sue opere migliori, Scandurra riusciva a disincrostare le parole di quelle deiezioni che l’uso comune vi ha depositato, per rinverginarle, per accoglierle magmaticamente in un universo poetico denso di infantili stupori, di imprevedibili aperture alla Storia, di una sensualità che accoglie in sé anche il fascino e l’orrore della morte. Valga, a definire il tormento espressivo di questo poeta di passione e di pensiero, l’efficace e vivida analogia della parola che «si torce/come serpe inchiodata dalla canna».

A rileggerli in queste ore, per stargli ancora un po’ vicino, ti accorgi di come i suoi versi volteggino leggeri sopra l’apocalisse, in fuga verso quell’«impossibile confine» oltre il quale si intravede l’apocalisse, il nulla: un «esercizio di conoscenza» perciò, la sua lirica, come ebbe a definirla Manlio Sgalambro, così attenta ad evitare di assumersi la funzione di redenzione dei mali dell’uomo e che, anzi, mira a inchiodare alle responsabilità individuali. Perché la vita è come una ragnatela e il poeta è il ragno, un «dio scontroso e scaltro» in agguato delle parole che riesce a imprigionare e con cui consuma amplessi mortali. Era un uomo estraneo alle mode e anticonformista, travolgente e coinvolgente, Angelo, in virtù di uno scintillante e distintivo impasto di sarcastica affabulazione e di sincera indignazione per le ingiustizie. Per lui, vita e poesia erano la stessa cosa, e poetica era la sua religione dell’amicizia che si ostinava a difendere e a coltivare, al di sopra di provinciali e velleitarie pose d’artista che preferiva piuttosto irridere, consapevole che, dopo Baudelaire, i poeti non potranno più ritrovare alcuna aureola. Se c’è una cosa che più delle altre mi mancherà era il suo modo di congedarsi dicendomi ogni volta: ti voglio bene.


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