Alice nel paese della retorica

Quando alla fine degli anni ottanta la Disney decise di creare una divisione per la distribuzione dei suoi prodotti più adulti, lo sbarco di Tim Burton alla (ormai defunta) Touchstone non sorprese nessuno: The Nightmare Before Christmas, in effetti, segnò l’inizio di una proficua collaborazione tra questi due mondi così apparentemente diversi.
Cosa ha spinto, allora, la Casa del Topo a riammettere il Folletto di Burbank sotto la sua ala protettrice? Un semplice calcolo di marketing, verrebbe da rispondere dopo la visione di Alice in Wonderland; è altrimenti difficile spiegare la scelta di Burton di dirigere sempre meno da Burton e di avvicinarsi sempre più agli standard di Hollywood.

Tre sono gli elementi che minano le fondamenta della pellicola, di cui gli ultimi due sono intimamente collegati tra loro: la caratterizzazione della protagonista, una retorica pomposa e l’eccessiva voglia di ordine.
Alice è una giovane donna che deve imparare a fare i conti con le convenzioni sociali tipiche del suo tempo. La differenza di età, però, che la separa dalla sua controparte cartacea la pone in una dimensione totalmente diversa rispetto al contesto vittoriano di cui dovrebbe fare parte. Paradossalmente sarebbe stata più indicata per il ruolo una figura più defilata e meno caratterizzata sessualmente, come la Johanna dello Sweeney Todd dello stesso Burton.

La morale della superiorità della follia sulla norma, che nel film viene ripresa dal Cappellaio Matto, da Alice e da suo padre, assume invece i toni di una retorica priva di fondamento. Essa viene completamente distrutta dalla netta contrapposizione tra Bene (la Regina Bianca) e Male (la Regina Rossa), carattere questo tipicamente disneyano. Non a caso, infatti, il combattimento finale vede contrapposti due eserciti esemplari: le carte di cuori (simbolo di passione e irrazionalità) contro i pezzi degli scacchi (simbolo di ordine e razionalità). La scontata vittoria di quest’ultimi sancisce la supremazia della norma sulla follia, tradendo lo spirito del film e capovolgendone il messaggio che pareva fondante: «tutti i migliori sono matti».

Del Burton originale rimane solo una robusta struttura estetica che, sì, conferma l’originalità del suo stile, ma che non aggiunge alcun significato all’opera nel suo insieme. Niente a che fare con Lewis Carrol, dunque, ma con un godibile prodotto d’evasione certamente più vicino al fantasy commerciale delle Cronache di Narnia che non alle follie registiche di Ed Wood.  

Buona comunque la scelta del cast, sebbene Johnny Depp cominci ad annoiare: sarà pure un attore di talento, ma questo Cappellaio aggiunge ben poco alla sua galleria di personaggi sopra le righe. L’aura d’artista maledetto che sembra non volerlo abbandonare rischia di diventare controproducente e di trasformare il suo presunto anticonformismo in banale serialità; accetti un ruolo più “comune” se vuole tornare ad essere credibile.
Su tutti primeggia la Hathaway, che riesce a conferire la giusta dose di naturalezza e spontaneità ad un personaggio etereo e diafano come quello che interpreta. Brava!


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