Processo omicidio Agata Scuto. L’esame dell’imputato: «Per me era come una figlia»

«Io sto parlando con il cuore sulle mani». Per più di due ore e mezza Rosario Palermo ha parlato rispondendo alle domande del pubblico ministero e dei legali di parte durante l’interrogatorio di questa mattina nell’aula di Corte d’assise al secondo piano del palazzo di giustizia di piazza verga a Catania. È lì che a ottobre dell’anno scorso è iniziato il processo che lo vede imputato per l’omicidio di Agata Scuto. La 22enne invalida di Acireale (nel Catanese) di cui si sono perse le tracce la mattina del 4 giugno del 2012 e il cui cadavere non è mai stato ritrovato. L’uomo che, all’epoca dei fatti, era il compagno della madre della vittima, è accusato di averla uccisa e di avere occultato il suo corpo perché la 22enne sarebbe stata incinta di un figlio suo. Una deduzione che arriva dalla testimonianza della madre Mariella a cui la giovane avrebbe confidato di non avere più il ciclo mestruale e da una frase scritta sul diario “Mamma cornuta“. Palermo, che continua a professarsi innocente, a sorpresa – o forse, inizialmente, per non avere compreso bene la domanda del presidente della corte – decide di sottoporsi all’esame davanti alle telecamere e ai microfoni di Un giorno in pretura e anche di Chi l’ha visto?. Al contrario della volontà che aveva poco prima espresso al suo avvocato Marco Tringali.

Il rapporto tra l’imputato e la vittima

Per rispondere alla prima domanda del pubblico ministero, l’imputato ricostruisce le relazioni sentimentali più importanti e durature che ha avuto nel corso della sua vita: a partire dal «primo figlio nato da un’avventura quando avevo 17 anni», fino a quelli (per arrivare a otto) avuti da molte donne diverse, due delle quali anche sorelle tra loro. Da qui, si arriva alla relazione con Mariella Palermo, la mamma di Agata, che è iniziata nel 2008. «Andavamo d’accordo, io le volevo bene, e anche con i suoi figli pensavo di andare d’accordo. Li ho aiutati economicamente ma loro erano traditori e maleducati e non volevano lavorare. Agata per me era come una figlia, una bambina. A volte si confidava con me del fatto che i fratelli la maltrattavano». Il pm si sofferma sul rapporto tra la vittima e l’imputato. Ed è proprio quest’ultimo a raccontare di un’unica volta in cui sarebbero stati da soli in macchina insieme e poi di numerosi messaggi e chiamate quotidiane che riceveva dalla ragazza al suo cellulare. Scambi telefonici che sono al centro di una conversazione intercettata tra Palermo e Sebastiano Cannavò, l’amico imputato in un procedimento connesso per favoreggiamento. «Se trovano il telefonino mi arrestano – confida l’imputato all’amico – La cosa è brutta perché io con questa ragazza ci scherzavo, ci facevo. Tipo “Agata, tua madre c’è? Quando vengo ti faccio fare un giro”». Interrogato sul punto, l’imputato chiarisce che la sua preoccupazione sarebbe stata dovuta al fatto che «sapevo che quelle parole potevano essere pericolose. Avevo paura che potessero incolpare me».

L’episodio in camera da letto

«Una sera Agata è entrata nel mio letto. Io ero sdraiato sotto il lenzuolo e lei si è seduta accanto ai miei piedi. Quando le ho chiesto cosa stesse facendo mi ha risposto: “Ti sto facendo compagnia“». La madre della ragazza era in bagno a fare una doccia. Palermo racconta di averla invitata a tornare nella propria stanza ma di avere ricevuto dalla 22enne, che lo chiamava “zio”, un secco rifiuto. «Mi rispose: “Qui non comandi tu, comando io perché è casa mia”». Un episodio di cui la madre viene prontamente informata. «È successo poi altre due o tre volte, nonostante i rimproveri», ricostruisce l’imputato che spiega anche che «Agata non lo capiva, ma io c’avevo vergogna. Per questo ho chiesto a Mariella di chiudere la porta a chiave quando usciva per andare in bagno».

Il giorno della scomparsa e l’avvistamento

Per lavoro, in nero, Rosario Palermo vendeva per strada le verdure spontanee, gli asparagi, le lumache, le castagne e i funghi che andava a raccogliere in giro per le zone di campagna. «Quel giorno – racconta l’imputato – mi trovavo nella zona di Scordia (in provincia di Catania, ndr) a cercare lumache con Michele Bella». Un amico che, sentito come testimone a processo ha categoricamente smentito questa ricostruzione spiegando invece di avere conosciuto Palermo solo due anni dopo i fatti e che sarebbe stato lui a chiedergli di dire così ai carabinieri nel tentativo di crearsi un alibi. «È un imbroglione», risponde seccamente Palermo che aggiunge che, intorno a mezzogiorno, ha deciso di andare via e dirigersi verso Randazzo per andare a raccogliere origano. Lì spiega di essersi procurato la ferita alla gamba con un pezzo di ferro arrugginito. Ed è lì che sarebbe a conoscenza della scomparsa di Agata. «Verso le 16.30 mi suona il telefono: è Gianluca Scuto (uno dei fratelli di Agata, ndr) che mi chiama per dirmi se avevo visto la ragazza perché loro, rientrando, non l’avevano trovata a casa. Dopo dieci minuti – aggiunge l’imputato – mi chiamano di nuovo per dirmi che le hanno telefonata e lei ha detto che se ne era fuggita con un 24enne rumeno e che si trovava dalle parti di Messina». A questo punto, Palermo racconta di essere tornato intorno alle 19 a casa della madre e, dopo essersi medicato la ferita senza fare ricorso a ospedali o medici, di essere andato a casa della compagna solo intorno alle 21.30. «Dopo otto giorni dalla scomparsa – aggiunge l’imputato – ho visto Agata alla stazione in compagnia di un ragazzo biondo con gli occhi chiari». In quell’unico presunto avvistamento, Palermo non si è fermato per raggiungerla. «Ero in macchina e non sono sceso perché c’erano altre macchine. Ho detto solo “Agata, vai a casa che tua mamma piange”. Ho rifatto il giro ma non c’era più. Poi siamo tornati con Mariella, ma niente».

Le intercettazioni

«Io devo andare da una parte, lontano. Ma se passano i carabinieri, devi dire che me sono andato da poco». Sarebbero queste le indicazioni che Rosario Palermo avrebbe dato alla sua ancora attuale compagna (che oggi era presente in aula ad ascoltare tutto) Sonia Sangiorgi, la donna che come una sua ex è indagata per favoreggiamento. Qualche giorno dopo, i due parlano ancora. «Devo andare a Randazzo al volo, l’importante è che arrivo a posare quel coso. Nella terra ce lo metto con le mie stesse mani. Sono stato un cretino, ci dovevo pensare prima ma domani rischio». Il rischio è dovuto al fatto che ci sono in vigore le zone rosse per il Covid, mentre il coso a cui l’imputato fa riferimento sarebbe il tondino di metallo sporco di sangue ritrovato poi dagli inquirenti. «Ho pensato – spiega Palermo – che avrebbero incolpato me, ma io non ho fatto niente». Durante l’interrogatorio di oggi, in pratica, Palermo ha ammesso di avere depistato le indagini. «Cercavo solo di difendermi – dice rispondendo a una domanda del suo avvocato – per non farmi dare colpe. La televisione ce l’aveva con me, la gente non mi guardava più in faccia e io mi vergognavo pure a uscire. Non ho fatto mai male a nessuno solo che ho la seconda elementare e se una parola la devo dire giusta, la dico sbagliata». Anche Rita Sciolto, la donna con cui Palermo ha avuto una relazione circa 18 anni fa anche lei imputata per favoreggiamento, sembra dare precise indicazioni su luoghi da indicare e soprattutto da non indicare ai carabinieri. «Se ti dovessero chiedere, devi dire zona di Catania, Palagonia, Linguaglossa. Ma non dire Siracusa».

I soliloqui in auto

Il Siracusano è l’area geografica che torna anche nei due monologhi che Palermo fa in auto. «Abbiamo trovato la ragazza morta strangolata e bruciata in un casolare di Pachino. Ci facciamo l’autopsia. Ma ancora non mi hanno arrestato». Una conversazione con se stesso in cui Palermo, all’epoca indagato, interpreta diverse parti e immagina situazioni. «Ero stressato al punto che parlavo da solo – spiega oggi in aula – Mi guardavano come fossi un mostro. Non capivo quello che dicevo e ho detto una cosa così. Avevo paura. Anche Pachino mi è venuto così, spontaneo. Io non lo so che c’è qualcosa a Pachino». La cittadina nella zona sud della provincia di Siracusa torna anche nel secondo soliloquio: «Il giudice ti ha scagionato, ti ha liberato. Abbiamo trovato il cadavere nel casolare di Pachino. Abbiamo arrestato a Scuto Gianluca. Sei libero». Un monologo in cui Palermo parla come fosse il giudice. «Non ragionavo – si giustifica adesso – Avevo troppa paura ma io sono innocente. Non ho mai avuto rapporti con Agata, la vedevo come una figlia. Se avessi avuto una relazione con lei – aggiunge tra lo stupore della corte – non avrei avuto problemi a viverla alla luce del sole. Perché io figli e mogli ne ho avuti tanti, ho avuto anche una figlia con una mia cognata, e non ho avuto mai problemi. Un figlio in più, un figlio in meno…Poi Agata era pure maggiorenne».

L’ipotesi della gravidanza

Non ci sono analisi che certificano che la ragazza fosse incinta, tanto meno di Palermo. La giovane, però, qualche mese prima di scomparire avrebbe confidato alla madre di avere un ritardo del ciclo mestruale e sul suo diario personale (che la madre ha buttato) avrebbe scritto “Mamma cornuta“. «Mariella mi aveva detto di questo ritardo. Ma “come è possibile?”, le ho detto, “se non esce di casa e non vede nessuno?”. Con lei non ho parlato perché sono cose da donne. Ho pensato, comunque – sottolinea l’imputato – che non fosse una questione legata a una gravidanza. La scritta sul diario – continua – l’ho vista pure io ma non ho pensato niente perché la ragazza non c’era con la testa». Alla fine dell’udienza, dopo avere vinto un iniziale imbarazzo, Palermo ha raccontato di avere problemi alla prostata e di non potere più avere figli. Una situazione su cui ha detto di avere anche delle certificazioni mediche ma di non ricordare precisamente a che anni risalgano. Una questione che, invece, potrebbe essere dirimente. La prossima udienza è già stata fissata per il 31 maggio.


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