A Jaffna tra i Tamil

In seguito a un invito, nell’agosto 2011 ho avuto occasione di visitare lo Sri Lanka. Pochi giorni prima della partenza, il Governo sri-lankese ha reso noto che per gli stranieri non sarebbe stato più necessario il permesso del Ministero degli Interni per visitare il nord del paese, il territorio dei tamil.

Trent’anni di guerra tra lo Sla – lo Sri-Lanka Army – e i guerriglieri delle Tigri Tamil dell’Ltte – Liberation Tigers of Tamil Eelam – hanno reso inaccessibile la regione a nord del paese, isolandola dal resto del mondo. Le radici del malcontento che ha causato la guerra sono lontane e affondano nel periodo coloniale. Gli inglesi, ultimi europei a comandare nell’isola, trattarono parimenti singalesi e tamil, dividendo e assegnando in parti uguali gli incarichi amministrativi che permisero ad alcune famiglie di arricchirsi e conseguentemente a una parte della popolazione di diventare élite grazie all’accesso agli studi e agli incarichi più prestigiosi al fianco dei colonizzatori.

Nel 1948, quando gli inglesi se ne andarono, tamil e singalesi si dividevano ancora in pari numero l’accesso all’università e agli incarichi dirigenziali. Ma gli inglesi non avevano tenuto conto di un dettaglio. Numericamente i singalesi rappresentavano la larga maggioranza della popolazione e i tamil una ristretta minoranza: quella suddivisione paritaria costituiva un’anomalia e per i singalesi andava sanata nel più breve tempo possibile. Il nuovo parlamento, inevitabilmente a maggioranza singalese, condusse una politica discriminatoria nei confronti dei tamil, imponendo forti limiti all’accesso all’università e agli incarichi pubblici con l’obiettivo di ristabilire le proporzioni. Lo slogan Sinhala only, solo singalesi, scandì campagne politiche e manifestazioni di piazza, creando crescente malcontento tra i tamil.

Trovando chiuse le porte di accesso alle università di casa, gli studenti tamil più ricchi si recavano all’estero: Parigi, Londra, Beirut. Ma quegli anni erano ricchi di ideologia e fermenti politici anche in Europa. Gli incontri con altri movimenti indipendentisti furono inevitabili: hezbollah libanesi, membri del Pflp – Popular Front for the Liberation of Palestine e probabilmente organizzazioni europee. In patria il movimento indipendentista aveva già fatto proseliti e quando le elezioni politiche confermarono le prospettive di emarginazione del popolo tamil, la miscela fu micidiale: iniziarono gli addestramenti in India e in Medio Oriente al fianco di palestinesi, siriani e libanesi e partì la macchina dei finanziamenti dei tamil residenti all’estero, già costretti a emigrare per la crisi: Europa, Canada e Usa, Australia e Singapore. Milioni e milioni di rupie, visto il cambio vantaggioso, per acquistare armi, addestrare la guerriglia e aiutare la popolazione stremata. Il resto di questa storia si dipana tra manipolazioni e controspionaggio, interessi politici e finanziari internazionali, ambigui comportamenti e interessi personali dei leader di entrambe le parti.

Dopo tante fasi alterne, nel 2009 lo Sla ha avuto il sopravvento massacrando in pochi mesi almeno trentamila persone tra civili e guerriglieri e macchiandosi di gravi crimini contro la popolazione e i para-militari tamil. Sparizioni e fosse comuni, cecchini sui civili, scudi umani. Secondo il governo norvegese, che per lungo tempo ha presieduto gli infruttuosi colloqui di pace, donne, anziani e bambini non sono stati risparmiati dalla carneficina né dalle torture, dagli stupri e dalle esecuzioni sommarie. Nel frattempo la popolazione civile singalese, ignara di quanto succedeva al nord, con una sapiente e mirata campagna governativa di disinformazione, si convinceva che i tamil in guerra altro non erano che pochi psicopatici sanguinari. Questa perlomeno è la risposta ricevuta alle domande poste a singalesi del sud e del centro del paese. Dal canto suo, il governo di Colombo nega e disconosce i documenti filmati sul campo.

Musica a palla, l’autobus rumoroso e scassato ha i finestrini rotti. Polvere e calura danno la sgradevole sensazione di stare all’aria aperta. Lasciamo i lunari dagoba (templi buddisti ndr) e le scimmie di Anuradhapura e a venti chilometri orari percorriamo la A9, semidistrutta dalle mine sino alla vivace Vavuniya, dove c’è appena il tempo per mangiare fright rice (riso fritto con verdure ndr) da un sacchetto di plastica e cambiare mezzo per Jaffna. Anche nel secondo tratto la strada è un cantiere, con decine di operai intenti a ricostruire i ponti fatti saltare durante la guerra o a riprendere il manto stradale. Sosta al Tempio di Ankaran per una veloce offerta a un barbuto sacerdote e ripartenza verso la savana del nord. La sosta al check point è più lunga del previsto, perché devo rispondere alle domande dei militari. Alla fine raggiungo l’autobus cento metri più avanti, mi guadagno il sorriso degli altri passeggeri, già sorpresi per l’insolita presenza occidentale e ripartiamo. Superiamo bazar all’aperto, bungalow ancora presidiati dai militari o trasformati in abitazione dai civili. Dopo le rovine di Kilinochchi, le tombe ai bordi della strada si fanno frequenti e per lunghi tratti le segnalazioni di terreno minato sono pressoché continue. All’arrivo a Jaffna, la stupefacente quantità di mutilati rivelerà le conseguenze delle mine disseminate ovunque.

Trascorro lunghe ore nella libreria cittadina, ricostruita dopo l’incendio. Il giro per i quartieri a est del forte, lungo Main Street, fa male. Abitazioni sventrate, pareti ridotte a gruviera dalle pallottole. Chiedo spiegazioni, cerco testimonianze. Raccolgo qualche sorriso malinconico e una calda stretta di mano, ma la paura di parlare e raccontare è più forte o forse – chissà – è voglia di dimenticare. Un padre di famiglia mi è riconoscente per quel che sto facendo, ma rientra in casa. Soprattutto in periferia, le tombe sono numerose tra un edificio e l’altro. Non fa impressione questo, perché è un’abitudine in tutto il paese, ma che le date della morte incise su gruppi di lapidi vicine siano sempre le stesse. La battaglia è passata da lì e quello è il risultato. I militari sri-lankesi sono appostati di guardia agli incroci, ai ponti, ai distributori di carburante e nei pressi di alcune abitazioni abbandonate. Sono quelle dei capi della guerriglia o che per qualche motivo non devono essere restituite alla popolazione tamil.

Scatto diverse foto. I militari non gradiscono, uno accenna a una reazione, ma mi dileguo velocemente ed evito complicazioni. Ho il privilegio di essere un occidentale, ma è meglio non tirare la corda. I militari sanno di essere una forza di occupazione e come tali sono avvertiti dalla popolazione civile. Questa, pur sollevata dalla fine della guerra, non gradisce né l’epilogo né la presenza dei nemici di trent’anni. La conseguenza è che i militari sono ancora costretti a girare in pieno assetto di guerra – mitragliatori col colpo in canna e bombe a mano appese alla cintura – senza perdere d’occhio quel che succede intorno, con licenza di sparare a vista al minimo allarme. Non gradiscono le foto, ma io sono occidentale e le dichiarazioni del governo sri-lankese parlano chiaro: la circolazione è libera e il divieto di fotografie è limitato agli obiettivi sensibili.

L’indomani mattina presto, temperatura già alta, nei pressi della stazione degli autobus che qui chiamano Bus Stand, i tuk tuk (mezzi di trasporto locali ndr) drivers fanno capannello e attendono i clienti. Con due bianchi lo scompiglio è assicurato. D’altronde, a Jaffna non abbiamo ancora incontrato occidentali e i pochi che passano da queste parti si spostano a bordo dei gipponi dell’Onu o delle Ong. Poco importa. Un driver ci viene incontro, ci sorride e ci chiede dove siamo diretti, ma non capiamo subito perché parla in tamil. Iniziamo bene. Del gruppetto di autisti solo uno parla inglese e pure male. La contrattazione è lunga. In questa fase i drivers, ma questa non è una novità, hanno la prerogativa di rendere qualsiasi destinazione lontana e difficile da raggiungere, salvo poi semplificare tutto una volta concordato il prezzo. Ci dicono pure che al Mavira Thuyillim Illam – è quello il posto – non si può andare, che è chiuso. «Portami là e fammelo vedere lo stesso», rispondo. Spuntiamo una tariffa ragionevole, ma non col driver che parla inglese, che probabilmente voleva far pesare il vantaggio di conoscere la nostra lingua.

(Fine prima parte)

[Foto di Peppe Sessa]


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