Lo strumento, obbligatorio per le aziende con più di 50 addetti, punta a ridurre le differenze tra uomini e donne nel lavoro. L'Italia e l'Isola sul punto sono molto indietro. «Situazione grave», commenta Patrizia Di Dio, vicepresidente di Confcommercio
Parità di genere, come funzionerà la certificazione per le imprese Sicilia lontana dalla media europea. «Stop annunci dalla politica»
Una
certificazione di parità di genere. È questa l’evoluzione delle quote rosa, dalla politica all’economia. Uno strumento, finanziato anche con appositi fondi del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), che punta a ridurre le differenze tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Una necessità ancora maggiore al Sud, compresa la Sicilia, penultima regione italiana per rappresentanza femminile nelle aziende: il 35,8 per cento del totale, contro la media nazionale ferma al 42,2 per cento. Ancora lontana dalla parità reale, con differenze che si amplificano in presenza di figli piccoli o in ruoli manageriali. Dati che, nell’insieme, collocano l’Italia al 114esimo posto su 156 secondo il World Economic Forum. «Si tratta di una perdita incredibile e una situazione grave con le istituzioni, compresa quella siciliana, che non rendono giustizia al ruolo della donna nella nostra società – spiega durante la trasmissione Direttora d’aria Patrizia Di Dio, presidente di Confcommercio Palermo e vicepresidente nazionale – Basti pensare alla nostra Regione che, per un certo periodo, non ha avuto nemmeno una donna in giunta».
La certificazione è stata introdotta già dal
1 gennaio 2022 e si tratta di un report obbligatorio per le aziende con più di 50 addetti. Rimane invece facoltativa per le società più piccole, che potranno comunque richiederla per accedere a uno sgravio dei contributi pari all’1 per cento fino a 50mila euro all’anno. «Il problema è che ancora gli enti che dovrebbero rilasciarla non sono accreditati, quindi un’azienda virtuosa che volesse procedere con la certificazione non può richiederla davvero e non sa neanche quanto le costerebbe. La politica dovrebbe andare oltre gli annunci», continua Di Dio. Prevista tra gli obiettivi anche la possibilità di un punteggio premiale nelle graduatorie per l’ottenimento di aiuti di stato e finanziamenti pubblici, ma anche nei bandi di gara. Le specifiche norme erano contenute nella bozza discussa mercoledì dal consiglio dei ministri e si dovrà ancora attendere per sapere con certezza se siano rimaste nel documento approvato. Sebbene molti propendano per il sì, a giudicare dalla nota del ministero della Pubblica amministrazione che cita, tra le novità del decreto legge, specifiche azioni in tema di parità di genere.
«Esistono degli esempi simili di monitoraggio della presenza femminile sul lavoro, come quelli delle università di lingua inglese – spiega Simona Feci, docente all’università di Palermo di Storia della condizione giuridica delle donne in Europa – La loro è un’esperienza positiva perché si sono messe in circolo idee e buone prassi a cui ispirarsi, ma anche una competizione virtuosa per raggiungere gli obiettivi». Vantaggi che potrebbero valere anche le aziende private. «Non si tratta di una misura punitiva o di un elemento di costrizione – continua la docente – È invece un passaggio importante perché può concorrere a una crescita dal punto di vista economico. Con un’occupazione equamente ripartita tra uomini e donne, secondo altri studi, ci sarebbe una crescita del Pil pari al 11 per cento. E stavolta, proprio questa certificazione, prevedere anche indicazioni chiare di supporto alle imprese per raggiungere lo scopo».
I criteri su cui si baseranno le certificazioni sono stati resi noti proprio poche settimane fa. Gli indicatori, suddivisi in sei aree, non saranno tutti richiesti alle aziende di piccole dimensioni. Ognuno di questi parametri conferisce un punteggio, che dovrà essere di almeno 60 punti per ottenere il documento di parità di genere. Da rinnovare ogni due anni, permettendo di migliorare le prestazioni dell’azienda nei settori in cui risulta ancora carente. Le sei macro-aree vanno da Cultura e strategia – che comprende anche l’analisi del linguaggio utilizzato in azienda e la rappresentanza di lavoratrici ad eventi esterni, assegnando il 15 per cento dei punti – alla Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro, che prende in considerazione eventuali servizi e benefit aziendali, oltre quelli già fissati dai contratti di lavoro, per un totale del 20 per cento del punteggio. Un parametro, quest’ultimo, che riguarda anche e soprattutto gli uomini: con i congedi di paternità, ancora troppo brevi e poco utilizzati in Italia rispetto al resto d’Europa.
Un’altra area riguarda invece la Governance (15 per cento): tra gli indicatori, anche la partecipazione delle donne in ruoli direttivi dell’azienda. Ci sono poi i Processi delle risorse umane (10 per cento) – ad esempio l’equo accesso alla formazione e alla mobilità interna, o la presenza di un referente per le molestie in ufficio – e l’Opportunità di crescita e inclusione (20 per cento) con il calcolo della percentuale di donne impiegate e in che ruoli, anche rispetto alla media del settore di riferimento. Da calcolare, infine, anche l’Equità remunerativa, intesa come differenza retributiva e di accesso alle promozioni tra uomini e donne, che peserà per un 20 per cento sul risultato finale.