«Per tutelare l'arbusto, ho comprato altri trenta ettari che altrimenti sarebbero stati convertiti in seminativo», spiega Sebastiano Milluzzo che dalla sua azienda agricola nel Siracusano ha ricevuto Gocce d'oro e il premio di miglior miele d'Italia
Il miele di timo degli Iblei nuovo presidio Slow food «Nel 2021 la produzione è calata del 70 per cento»
In Sicilia c’è un nuovo presidio Slow food: è il miele di timo ibleo. Un arbusto che con i suoi fiori viola caratterizza i monti Iblei, estesi tra le province di Siracusa e Ragusa, almeno da duemila anni. «È una pianta antichissima, già il poeta romano Virgilio, nel primo secolo avanti Cristo, decantava il miele degli Iblei come panacea di tutti i mali», racconta a MeridioNews Enrico Russino che a Scicli (nel Ragusano) porta avanti l’azienda agricola Gli Aromi dove coltiva anche il «thymus capitatus che, in dialetto, chiamiamo sataredda. Una delle migliori piante mellifere». Non solo gli antichi autori latini, il miele di timo ibleo è stato elogiato anche da scrittori italiani e inglesi tra i più noti: nel suo poemetto incompiuto Le Grazie del 1812, Ugo Foscolo immagina come prima meta delle Grazie, seguite dalle api nel loro viaggio dalla Grecia all’Italia, proprio la zona degli Iblei. Alla fine del 1500 William Shakespear, nella tragedia Enrico IV, paragona il miele degli iblei alla ragazza amata.
«È un miele che ha delle caratteristiche uniche – spiega a MeridioNews Sebastiano Milluzzo, un apicoltore che ha le distese di timo della sua azienda agricola in contrada San Marco nelle campagne nei dintorni di Canicattini Bagni, nel Siracusano – Tende a cristallizzare lentamente, ha un colore ambrato più o meno chiaro, un particolare odore floreale e un po’ speziato che si riconosce anche dopo averlo annusato la prima volta, e un sapore intenso che dà l’impressione di assaggiare tutto il territorio degli Iblei». Un miele così pregiato che, però, oggi a causa del cambiamento climatico e dell’inquinamento, subisce un drastico calo della produzione. «Quest’anno io sono riuscito a produrne solo il 70 per cento in meno rispetto all’anno scorso», lamenta l’apicoltore canicattinese. Il suo miele di timo, nel 2015, ha ricevuto la prima Goccia d’oro – il premio organizzato dall’osservatorio nazionale miele – e due anni dopo, nel 2017, ha vinto il premio come miglior miele d’Italia a Montalcino (in provincia di Siena, in Toscana). «Si tratta di una produzione estiva: il timo fiorisce a partire dalla fine di giugno – spiega Milluzzo – ma quest’anno l’estate è iniziata troppo presto e con temperature altissime che qui in provincia hanno superato di gran lunga i 45 gradi». Al caldo che ha bruciato i fiori si sono aggiunti anche gli incendi che, in alcune aree del Siracusano, hanno distrutto completamente la vegetazione compresi gli arbusti.
«Io quest’anno sono anche passato al biologico e le spese si sono triplicate – sottolinea l’apicoltore- e, data la scarsa produzione di miele, ci ho proprio rimesso. Ma, da figlio di agricoltore, dico che mio padre mi ha insegnato se c’è la passione per la terra e il proprio territorio si resta in piedi e si accetta anche un’annata andata male. Certo – aggiunge Milluzzo – più che di formalità, la categoria degli apicoltori avrebbe bisogno anche di aiuti concreti che, nonostante qualche promessa, non sono mai arrivati». Il riconoscimento come presidio Slow food, oltre a valorizzare il miele monofloreale, vuole anche essere un punto di partenza per invertire la tendenza del declino dei timeti. Il timo, infatti, è una specie da riforestazione: mediante la piantumazione in luoghi idonei è possibile ripristinare ambienti naturali alterati, mettendo a disposizione delle api nettare prezioso e permettendo agli apicoltori di proseguire la tradizione di portare le arnie sulle fioriture del timo. «Per questo, negli ultimi cinque anni – racconta Milluzzo – ho deciso di acquistare altri trenta ettari di terreno (che si aggiungono ai cinquanta che già costituivano l’azienda agricola Milluzzo): per tutelare il timo che cresce spontaneamente da chi avrebbe voluto trasformare quei terreni in seminativo, colture a cui non sono nemmeno adatti».