In attesa della scadenza dei 150 giorni fissata dal giudice etneo Luigi Barone per approfondire le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio a carico dell'imprenditore catanese, continua il viaggio di CTzen tra i 40 faldoni dell'inchiesta. Nella seconda puntata, i presunti incontri con esponenti di Cosa Nostra tra i racconti di protezione e favori. A parlare, collaboratori di giustizia e il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo don Vito
Mario Ciancio e i presunti rapporti con i boss Ciancimino: «La faccia pulita da spendere»
«Ciancio, per determinati settori, era considerato un punto di riferimento, ossia la faccia pulita da spendere». Così Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo don Vito, ha spiegato ai magistrati il presunto rapporto tra Cosa Nostra e l’editore-direttore del quotidiano etneo La Sicilia accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio. Sentito più volte durante il 2009, i racconti di Ciancimino fanno parte dei 40 faldoni che il giudice per le indagini preliminari di Catania Luigi Barone ha ordinato alla Procura etnea di riesaminare, dopo non aver accolto la richiesta di archiviazione dell’accusa a carico dell’imprenditore. Al termine delle nuove indagini mancano ancora alcuni mesi, 150 giorni a partire da metà novembre. Poco importa al gip Barone se delle parole di Ciancimino i pm hanno trovato pochi o nessun riscontro. L’importante, secondo il giudice, è il contesto: «L’indicazione del ruolo fondamentale assunto dal Ciancio Sanfilippo, non solo in ambito catanese, ma anche regionale, nella gestione e spartizione dei grandi affari imprenditoriali, ai quali era interessata Cosa Nostra». Che non emergerebbe solo dai racconti del figlio di don Vito.
«Ciancimino, dopo avere premesso che Cosa Nostra, nellala riconducibile a suo padre e a Provenzano, era interessata al controllo dei media almeno regionali, riferiva che suo padre si esprimeva in termini elogiativi nei confronti del dott. Mario Ciancio perché gli riconosceva grande abilità per avere saputo raggiungere il monopolio ed il controllo assoluto dei mezzi di informazione su tutta la provincia di Catania», scrive il giudice. «A Catania Cosa Nostra fa muro e Ciancio sta vicino ai suoi uomini», in sintesi. Da questo presunto rapporto di stima tra il padre e l’editore etneo partono i racconti di Ciancimino jr. Che ricorda di aver visto Mario Ciancio in diverse occasioni, a partire dai primi anni ’80, in cui accompagnava il padre don Vito: a casa dell’architetto Scardina con, tra gli ospiti, Benedetto Santapaola e Bernardo Provenzano. Allhotel Costa Verde di Cefalù alla presenza di Masino Cannella in rappresentanza sempre di Provenzano. E ancora all’hotel Capo Taormina, nel Messinese, insieme ad altri imprenditori etnei, e al Timeo – sempre di Taormina – insieme a politici locali e Nitto Santapaola.
Dalle parole di Ciancimino, secondo Barone, viene fuori un ritratto dell’indagato: «Un punto di riferimento» per Cosa Nostra e «tra le voci autorevoli» quando c’era da discutere di interessi imprenditoriali. E da mediare con la politica. Mai abbastanza indagato dai pm, rimprovera il giudice, è quindi lo «stabile rapporto e reciproco sostegno nel tempo tra il Ciancio Sanfilippo ed esponenti di Cosa Nostra e quei soggetti succedutisi negli anni nel governo della città di Catania». Presunte conoscenze e collaborazioni di cui non parla solo Ciancimino e non limitate al capoluogo etneo. Si comincia negli anni ’80, con i rapporti societari con la famiglia Rappa di Palermo – anche loro imprenditori nel settore edile e della comunicazione – per la gestione di diverse reti televisive locali, alcune poi cedute a Silvio Berlusconi. Vincenzo e Filippo Rappa, padre e figlio, vengono accusati nel 1997 di associazione mafiosa e riciclaggio: condannato il primo, assolto il secondo. Entrambi sono parenti di Francesco Rappa, «capo indiscusso della famiglia mafiosa di Borghetto», ricorda Barone. Ciancio avrebbe anche potuto non sapere, dieci anni prima che i magistrati si interessassero ai suoi soci, ma il gip richiama ancora nuovi elementi.
Come lo storico furto in casa dell’editore etneo nel 1993. L’indomani, sul quotidiano La Sicilia, viene promessa una ricompensa di 50 milioni a chiunque possa fornire informazioni utili per il ritrovamento degli oggetti d’antiquariato sottratti all’imprenditore. A fare luce sulla rapina per cui è stato poi condannato – è Giuseppe Catalano, ex esponente del clan catanese dei Laudani. Pentitosi, l’uomo racconta ai magistrati quattro anni dopo di aver preso parte al saccheggio nella villa di Ciancio a San Giorgio. Ma, mentre cercava di piazzare i pezzi antichi, a Catalano arriva lo stop del capo dei Laudani Giuseppe Di Giacomo: dal clan dei Santapaola – tramite Aldo Ercolano, Santo Battaglia e Marcello D’Agata – sarebbe arrivato l’ordine di restituire la merce «al loro “amico” Mario Ciancio», spiega il gip. Catalano accetta, ma incassa i 50 milioni di ricompensa per il disturbo. La sua versione verrà poi confermata da diversi collaboratori di giustizia.
Come Angelo Siino, detto il ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra. Che ai magistrati ha raccontato: «I Santapaola consideravano leditore Mario Ciancio come una persona che “era stata sempre cortese e disponibile nei confronti della famiglia”». E loro, secondo il collaboratore, avrebbero più volte ricambiato il favore. Nel caso del furto, ma anche della protezione offerta all’imprenditore in una sua proprietà agricola alla Piana di Catania disturbata dai calamittari, i piccoli delinquenti della zona. Presunti rapporti che riguardano anche l’attività editoriale di Mario Ciancio, di cui parleremo nella prossima puntata.