L'inchiesta Nebrodi ha dimostrato come i clan hanno aggirato la nuova legge, ma ha pure acceso una luce sui vuoti da colmare. «Vanno estese la verifiche alla provenienza degli animali, e serve una task force per i contratti di affitto», spiega il sindaco Venezia
Mafia dei pascoli, andare oltre il protocollo Antoci «Seguire il bestiame per scoprire i prestanome»
«Adesso bisogna seguire gli animali». Fabio Venezia, sindaco di Troina sotto scorta da cinque anni, aggiorna inconsapevolmente un imperativo che fu la stella cometa di Giovanni Falcone: «Seguire il denaro». E lo fa provando a indicare una nuova strada per distruggere la mafia dei pascoli.
Dalla mega-inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Messina che ha terremotato i clan di Tortorici con 94 arresti e 194 indagati, emerge come le famiglie mafiose dei Nebrodi avessero affilato le armi per aggirare il protocollo Antoci. Quel rivoluzionario strumento, diventato legge dello Stato nel 2017, prevede l’obbligo per qualunque ente pubblico di chiedere la certificazione antimafia per concessioni di terreni agricoli o per il pascolo. Una normativa che ha permesso a sindaci di buona volontà di revocare le concessioni, chiedere verifiche alle prefetture da cui sono nate numerose interdittive antimafia. In definitiva ha messo realmente i bastoni tra le ruote al business dei clan. Oggi però, a distanza di appena pochi anni, le famiglie mafiose sembrano aver trovato il modo di continuare a drenare quei fondi europei che dovrebbero sostenere gli agricoltori e gli allevatori siciliani. L’inchiesta Nebrodi dimostra che questo è avvenuto essenzialmente attraverso due strade: la ricerca di prestanomi elevata a sistema, e la truffa sui contratti di affitto dei terreni.
Per capire dove colpire il business mafioso, è utile fissare un principio cardine (e in parte criticato) della politica agricola comune dell’Ue. Il sistema dei contributi diretti – che sono una parte del totale dei fondi europei destinati agli agricoltori – premia la proprietà e non la produzione. Più dimostri di possedere (terreni, titoli e bestiame), più ottieni. Non serve progettare, sviluppare, inventare. Bastano gli asini, le mucche, le capre per prendere il contributo. Poco importa se si produrrà latte o formaggio. Al massimo la carne, quando moriranno.
«Quando un’impresa mafiosa è colpita da interdittiva si può considerare finita – spiega il sindaco Venezia – ecco perché, nel giro di poco tempo, i clan sono obbligati a cedere a prestanome bestiame, terreni e titoli Agea (i diritti aziendali, cioè una quota fissa di contributo che viene erogata di diritto al produttore assegnatario; ogni titolo è rapportato ad una determinata superficie ammissibile ndr)». A Troina ne sanno qualcosa. In uno dei terreni tolti a imprenditori mafiosi è partito il progetto per creare la più grande azienda zootecnica pubblica d’Italia, con l’acquisto di cento asinelli ragusani. Qualche giorno dopo, all’interno dellla recinzione dove sono stati messi gli animali, qualcuno ha fatto entrare dodici mucche inselvatichite. Non senza difficoltà, si è riusciti a fotografarle e, grazie a un bottone, a risalire al proprietario, un giovane incensurato. Ma andando oltre, e approfondendo la storia di quella mucca, si è scoperto che prima è appartenuta a una società dei Conti Taguali, colpiti da interdittiva della Prefettura di Catania, nonché gli stessi a cui erano stati tolti i boschi dove adesso vivono gli asinelli. Un modo per cercare di ribadire la propria presenza in quel territorio.
«Serve seguire gli animali – ripete Venezia – serve cioè estendere le verifiche delle prefetture sull’anagrafe del bestiame, sulla provenienza dei titoli e degli animali. Questo permette di risalire ai passaggi di proprietà e capire se a ogni passaggio è corrisposta una reale vendita o se invece non c’è traccia di denaro e quindi si tratta di prestanome».
Seconda falla evidenziata dall’inchiesta della Dda di Messina è quella dei finti contratti di affitto. Per acquisire i terreni la criminalità ha agito in tre modi: la ricerca di quelli demaniali, specie dentro le aree protette come il Parco dei Nebrodi dove fruttano mediamente il 50 per cento in più degli altri; oppure l’acquisto di terreni privati a poco prezzo dopo aver vessato l’agricoltore con minacce, incendi, e invasioni di animali per rendere l’area insicura e far crollare il prezzo di mercato; o infine tramite contratti di affitto finti. Con la complicità dei funzionari dei Centri di assistenza agricola si accede alla banca dati dei terreni e si individuano quelli che non sono già usati per le richieste di contributi. Quindi si procede a falsificare la firma di ignari proprietari, a volte persino morti.
«Ecco – sottolinea il sindaco di Troina – serve creare una task force di controllo sui contratti di affitto, per verificare se i legittimi proprietari sono al corrente, se c’è stato un reale passaggio di denaro. Lo dovrebbe fare l’Agea ma sono pochi rispetto alla mole di lavoro per tutta l’Italia e le verifiche scattano a campione e su contratti superiori ai 150mila euro. Basterebbero alcune decine di persone esperte e competenti per evitare truffe da decine di milioni di euro».