Simona, da nove anni pneumologa in Inghilterra «La Brexit? Sta già invertendo il flusso migratorio»

Nel nostro viaggio tra i palermitani che vivono nel Regno Unito proseguiamo incontrando Simona, pneumologa classe 1977 che da nove anni vive e lavora in UK esercitando la propria professione. Trasferitasi nel 2011, ha scelto di fare il salto verso l’esterno nonostante lavorasse nell’ambito dei trapianti all’Ismett di Palermo.

«In Inghilterra quello medico è un campo estremamente competitivo, un ambito in cui sussiste un forte campanilismo da parte degli inglesi, non tanto dal punto di vista strettamente medico o infermieristico, quanto nei settori di controllo e gestione della sanità – spiega subito Simona a MeridioNews -. Tanto che, molte delle cariche più alte, sono riservate esclusivamente ai medici locali. Ovviamente questo non si applica ovunque o in maniere eterogenea, ma è un atteggiamento piuttosto comune, di cui ho avuto modo di accorgermi avendo lavorato, nel corso degli anni, in diverse strutture ospedaliere della capitale britannica. Fortunatamente per noi italiani, fino ad ora, la ricerca di lavoro in ambito sanitario è sempre stata favorita dalle regole europee, che prevedono passaggi burocratici per i cittadini dell’UE grazie alla semplice conversione nel curriculum di studio di laurea e specializzazione nell’equivalente britannico».

«Così non è per i medici o gli infermieri provenienti da paesi esterni all’UE – continua Simona -, la cui trafila per il riconoscimento del titolo è molto più lunga e complessa ed uno dei timori più diffusi nel settore riguarda proprio il passaggio a questo livello più articolato di equiparazione dei titoli. Se questo accadesse, renderebbe più lenta e farraginosa la possibilità di assunzione presso le strutture sanitaria britanniche che, come sappiamo, rappresentano la meta per molti medici e infermieri neolaureati. Giovani italiani che emigrano, o sono emigrati, in cerca di condizioni e possibilità di lavoro stabili, assenti in un sistema come il nostro basato sul precariato. Il rischio è che queste lungaggini burocratiche rallentino questo flusso di personale, di cui gli inglesi hanno bisogno», racconta ancora, parlando di un settore nel quale vanta ormai anni di esperienza. «Qui nel Regno Unito, nell’ambito sanitario, la formazione annuale è continua, con verifiche periodiche sulla preparazione previste ogni cinque anni ed al mio arrivo, nonostante l’equipollenza dei titoli, ho dovuto ricominciare dal livello più basso del mio settore, impiegando tre anni, con annessi concorsi, per recuperare una posizione simile a quella che avevo raggiunto in Italia».

«Bisogna dire che il sistema sanitario britannico è in crisi principalmente perché pochi inglesi vogliono fare i medici o gli infermieri. Questo perché la professione sanitaria è considerata poco remunerativa in relazione alla responsabilità e all’impegno che comporta, ma anche relativamente all’alta tassazione imposta sull’intero comparto, che con la Brexit sta subendo un incremento delle imposte e una riduzione degli stipendi», racconta ancora la nostra connazionale esponendo le difficoltà di un ambito che fornisce impiego a molti italiani all’estero. «Posso dire che nei mesi intercorsi dall’annuncio dell’uscita dall’UE ad oggi, molti infermieri provenienti dai paesi del Mediterraneo sono già stati sostituiti. Tra spostamenti negli ospedali dei piccoli centri e rientri in patria, nelle grandi città si assiste all’assottigliamento della grande massa di lavoratori europei, composta principalmente da italiani, spagnoli e greci, i cui posti vengono occupati da personale di origine indiana e pakistana», spiega.

«Sicuramente – torna a dire -, per quello che posso vedere, la Brexit ha già avuto l’effetto di invertire parzialmente il flusso migratorio, almeno da e verso i paesi dell’Est europeo e sebbene non abbia ancora avuto alcun effetto sulla vita reale delle persone e sebbene nessuno si aspettasse sarebbe divenuta reale, siamo tutti coscienti che il costo della vita, vuoi o non vuoi, sia destinato ad aumentare. Inoltre, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea segna la morte del locale programma Erasmus e l’insorgere di numerose complicazioni burocratiche per la collaborazione tra istituti di ricerca, ospedali e altre istituzioni che vivono e prosperano grazie allo scambio culturale tra i ricercatori di vari paesi», afferma Simona, puntando l’attenzione su una conseguenza, forse poco considerata, della Brexit nel campo della collaborazione nel settore della ricerca scientifica.


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