Sul sito - oggi non più visibile - della Marchese Group spa sono presentati come i volti di una società specializzata in diversi settori, ma i loro curricula sono conosciuti soprattutto dalle forze dell'ordine. A beneficiare dei loro servigi diversi imprenditori
La Stidda al Nord, la squadra di Rosario Marchese Tra pregiudicati in cravatta e contatti con i servizi
Giacche scure, camicia bianca e cravatta blu si presentavano come i volti della Marchese Group. In realtà però a conoscere i curricula di Roberto Raniolo, Giuseppe Nastasi, Danilo Cassisi, Alessandrio Scilio e Francesco Scopece sono stati, negli anni, soprattutto gli uffici di polizia e i tribunali. I cinque fanno parte della squadra che il gelese Rosario Marchese ha costruito attorno a sé per realizzare il proprio bluff criminale nel profondo Nord, tra Lombardia e Piemonte.
Gli affari a sei zeri si sarebbero retti su una costante simulazione: dalla creazione di crediti d’imposta inesistenti, tramite società al collasso, alla loro cessione – questa sì concreta, ma illegale – a imprese a caccia di soluzioni facili per ripianare i debiti con lo Stato, fino alla produzione di fantomatiche consulenze fiscali a giustificazione dei servizi illeciti forniti agli imprenditori del Nord. Ma la poliedricità di Marchese – ragioniere 33enne con un lungo trascorso criminale e una vicinanza ai Rinzivillo, poi tramutatasi in frizioni e successivamente nella decisione di fare le valigie per riparare nel Bresciano – avrebbe trovato espressione anche nella costituzione di una serie di società attive, sulla carta, nei settori petrolifero, medico, pubblicitaro e dell’assistenza alle imprese. Tutte raccolte nella Marchese Group.
La società – una srl che per accreditarsi sulla scena milanese ha fatto il salto diventando una spa, con tanto di virtual office in via Montenapoleone – è stata costituita il 9 giugno 2017. Poco dopo che sui conti riconducibili a Marchese venissero accreditati bonifici per oltre due milioni di euro. Frutto, secondo la Dda di Brescia, della vendita dei crediti d’imposta che sarebbero stati usati per le compensazioni. Ma per gli inquirenti Marchese non sarebbe stato soltanto avvezzo ai raggiri di natura fiscale, l’uomo avrebbe sfruttato i legami con le cosche siciliane – in particolar modo con la Stidda – per mettersi alla guida di un’associazione mafiosa autonoma. Ad affiancarlo nei ruoli di leader ci sarebbero stati Angelo Fiorisi, affiliato al clan Iannì-Cavallo con un passato da protagonista nel traffico di eroina da Turchia e Gemania e che poi dall’autoparco di Milano arrivava in Sicilia, e Roberto Raniolo.
Sul sito della Marchese Group, prima che venisse oscurato, Raniolo era presentato come sales manager (responsabile vendita). Per i magistrati, si sarebbe invece occupato di gestire gli affari nella zona sud di Milano, ma soprattutto di impartire le direttive agli altri componenti del gruppo. Un’autorevolezza che sarebbe stata legata anche alla propria caratura criminale: condanne per favoreggiamento di un mafioso, detenzione di armi e omicidio volontario. Era il ’96 quando Raniolo venne arrestato insieme a un’altra persona per l’assassinio di un marocchino. Il delitto sarebbe stato legato alla droga. Un mondo da cui si sarebbe allontanato dopo avere fiutato il business meno appariscente che avrebbe avuto in Marchese il principale stratega.
A cambiare vita, anche più radicalmente, sarebbe stato Francesco Scopece. Di natali pugliesi, l’uomo è stato un carabiniere fino a quando l’Arma non lo ha destituito, in seguito alla scoperta dei rapporti intrattenuti con numerosi esponenti mafiosi tra cui il gelese Alessandro Pardo. Proprio sfruttando questa conoscenza, Scopece avrebbe cercato di ammorbidire i propositi vendicativi di Pardo nei confronti di Marchese, spiegando al primo come il ragioniere, ormai stabilmente al Nord, avesse deciso di spostare ad altra latitudine i propri interessi. Ma l’utilità di Scopece sarebbe stata anche di altro tipo: sfruttando le credenziali di un professionista abilitato, avrebbe trasmesso gli F24 contenenti i crediti d’imposta fasulli.
Se di Giuseppe Nastasi, pregiudicato per reati di droga, gli inquirenti dicono che avrebbe messo a disposizione la propria ditta individuale nella rosa di quelle usate per cedere i crediti fittizi, il ruolo di uomo di fiducia di Marchese per Danilo Cassisi sarebbe derivato dall’essere figlio di un esponente Iannì-Cavallo. Per quanto riguarda Alessandro Scilio, che a ottobre dello scorso anno è stato condannato a otto anni e mezzo nel processo Tomato, sarebbe stato usato come controllore di una società su cui Marchese aveva messo gli occhi, fino a estromettere il titolare.
Figura fondamentale per il gruppo criminale sarebbe stata quella di Gianfranco Casassa. Il 54enne bresciano si sarebbe occupato dell’individuazione degli imprenditori interessati all’acquisto dei crediti, ma anche del reperimento, tramite un rivenditore di fiducia, delle schede sim da utilizzare per comunicare telefonicamente in sicurezza. L’uomo avrebbe avuto un ruolo anche nel recupero di informazioni da esponenti infedeli delle forze dell’ordine, tramite accessi abusivi alle banche dati. In tal senso, gli inquirenti ipotizzano che tra i contatti di Casassa ci sia anche un uomo dei servizi segreti. Conosciuto come lo «zio», in più di un’occasione gli sarebbero state recapitate somme di denaro. A provare che qualcuno abbia dato una mano a Marchese sono stati gli accertamenti ordinati dagli inquirenti: nella banca dati dell’Aisi sono emersi diverse interrogazioni sul conto del 33enne ragioniere e non solo. Tra coloro che avrebbero ringraziato lo zio c’è anche Flavio Prandelli.
Imprenditore nel settore della commercializzazione delle bevande, Prandelli, oltre a sfruttare le compensazioni illecite, avrebbe chiesto la protezione di Marchese per sottrarsi a una richiesta di estorsione da un altro siciliano legato alla criminalità organizzata e per recuperare dei soldi sottratti da uomini d’affari russi. Denaro – circa 600mila euro in contanti – che secondo un avvocato vicino al gruppo guidato del ragioniere originario di Caltagirone si puntava a riciclare all’estero. «L’unica soluzione è Ros», commentava l’avvocato, sottolineando l’impossibilità di denunciare la vicenda alle forze dell’ordine.