I pentiti che hanno tradito i padrini di Passo di Rigano «Speriamo che non lo vanno a trovare, così si impicca»

«Dobbiamo vedere se non si fanno gli altri sbirri, perché ti sembra che è finita? Gli darei un sacco di timpulate». Non si dà pace Tommaso Inzerillo, boss vecchio stampo che vuole ricostituire il mandamento di Passo di Rigano e le sue vecchie regole. Non sa proprio come abituarsi ai nuovi mafiosi che, finiti in manette, si riscoprono pentiti di quanto commesso fino al giorno prima e sono pronti a tradire i segreti di chi è rimasto fuori. A impensierirlo sono soprattutto i giovanissimi, quelli che non hanno avuto il tempo necessario per temprarsi ai dogmi di Cosa nostra. Come Leandro Greco, il nipote del Papa, e che in suo onore infatti si fa chiamare Michele. «Ora, già ha fatto arrestare a quello, ora arrestano a tutti e due… Quello ha ventiquattro anni, appena entra dentro si svuota», teme il boss. Anche se a dire il vero quel «ragazzetto» ad oggi la bocca non l’ha ancora aperta, al contrario di quelli che invece hanno fatto il suo nome ai magistrati facendolo finire in galera, nel blitz dello scorso gennaio.

Tra questi, per esempio, c’è Filippo Salvatore Bisconti, ritenuto il reggente di Belmonte Mezzagno, che una volta finito dentro parla a lungo con gli inquirenti. Le sue dichiarazioni, infatti, innescano le preoccupazioni di Inzerillo ma soprattutto il suo cinismo, tanto che tra una riflessione e l’altra intercettata dagli inquirenti dice qualcosa che lascia addirittura di sasso i sodali che lo ascoltano: «Speriamo che sua moglie non ci vada, se non ci va la moglie e figli, è importante!». Il motivo? «Eh, certe volte … si impiccano, si vedono soli… che devono fare, capito! Se ci va la moglie subito, è più difficile che possono fare…hai capito?», spiega a chi è rimasto a bocca aperta. «C’è stato pure un altro pentito che ha parlato, non so cosa ha detto – dice in un’altra occasione -. “Vedete che qui sono tanti, sono gli Inzerillo, dice che appena tornano…sono qualche duecento, questi in un colpo…vengono da cose…”», ma non finisce la frase. Eppure ai suoi tempi, prima di tutto, delle vendette, della seconda guerra di mafia, della scappata in America, tutti questi pentiti non c’erano. Anzi, forse nemmeno esisteva il concetto stesso.

Cosa è cambiato oggi? «È successo il mondo, perché quando hanno dato il quarantuno le persone non c’erano abituate, no? – dice a un sodale, alludendo al regime del carcere duro -. Perciò si sono visti buttati là e si sono messi a fare i pentiti… quelli che contano! Hai capito perché ti dico si rovinò il mondo?». Considerazioni e timori che già avevano preso campo in tempi non sospetti, anni e anni prima. È il 2005 quando Salvatore Lo Piccolo prende preoccupato l’argomento in un pizzino indirizzato a Bernardo Provenzano: «Siamo arrivati al punto che siamo quasi tutti rovinati, e i pentiti che ci hanno consumato girano indisturbati. Purtroppo ci troviamo in una situazione triste e non sappiamo come nasconderci», scriveva. Sollecitando il boss latitante ad acconsentire all’arruolamento ufficiale degli Inzerillo, tornati dagli Usa, considerato che erano giovani «che non uscivano fuori dal seminato, per non rischiare quel poco di pace che abbiamo». Ma c’è anche chi, oggi, consapevole della situazione, cerca di rincuorare don Masino. «Io sono uno che le cose me le so tenere», assicura Giuseppe Lo Cascio, coinvolto anche lui nel blitz di pochi giorni fa.

Più e più volte si vanta col boss di avere «tutti i requisiti» che ne nobilitano l’appartenenza alla consorteria mafiosa. «Io neanche i parenti dei parenti ho sbirri, fino adesso, nella mia famiglia pure i parenti dei parenti, perché da noi erano, erano valori di primo, però da tutti sono valori, tutt’altro abbiamo!». Per l’esattezza, ha parenti in ogni tipo di professione utile che sarebbero a suo dire ben felici di piegarsi, se necessario, alle richieste del mandamento. «Io ho quattro zii dottori, uno è ginecologo, uno è dentista, uno è farmacista e uno è pediatra, cioè, io ce li ho per me tutti». C’è pure un cugino che si chiama esattamente come lui, ma i due oltre al nome condividono anche il curriculum criminale: prossimo alla scarcerazione, l’omonimo è costretto a rimanere dentro per colpa delle dichiarazioni di un nuovo collaboratore di giustizia della famiglia mafiosa di Partanna, che ne avrebbe ritardato la liberazione: «Questo un po’ di danno lo fa. Non ha niente sopra mio cugino. parla solo per sentito dire. Ma come mai ora questi pentiti fanno questi danni, non ci vogliono i riscontri?».

Ma è sicuro della tenacia della famiglia Lo Cascio. «Noialtri così siamo mi piego ma non mi spezzo», continuava a vantarsi, intercettato. Ma persino lui è preoccupato dai recenti pentimenti seguiti agli ultimi grossi blitz palermitani. Di nuovo Inzerillo torna a sperare in una scelta diversa e drastica, pur di non parlare una volta messi dentro. «Non ti fai ti impicchi se ti puoi impiccare». Raccogliendo il consenso di Lo Cascio, che tuttavia osservava che «là ci vogliono pure le palle, ci vogliono. A fare questo, non è facile, devi essere di un altro cervello». Mentre il boss suggerisce per sicurezza ai suoi non ancora finito dietro le sbarre di cancellare dal telefono dati compromettenti, proprio in vista di quello che avrebbero potuto dire i pentiti. Molti dei quali, ne è sempre più convinto don Masino, parlano per via della loro poca esperienza, motivo che non giustificava in ogni caso quella che per lui è una vera e propria perdita d’onore. «Io sono abituato a cose serie, è un rispetto, è un onore – replica infatti il fedele Lo Cascio -, ma qua stiamo parlando di una perdita d’onore. Prima però, voglio dire, erano brave persone, ma qua stiamo parlando a mare».

«Tutti si sburiddaru, diciamo – concorda anche un altro uomo coinvolto nel blitz, Antonino Di Maggio -. Sto facendo un quadro, diciamo, un poco genealogico: Ganci, Cancemi e Pipitone sono tre famiglie grosse, giusto? No? Ah? Si sburiddaru, nei La Barbera c’è stato anche un nipote che sburiddò pure, anche se non è La Barbera ma si sburiddò in qualsiasi modo. E sono già quattro famiglie grosse. Praticamente sono rimasti Inzerillo, Di Maggio e Gambino. Che non si è sburiddato nessuno fino ad ora in queste tre famiglie. Perciò che cosa voglio dedurre io, che di tutti quelli che conosciamo noi, che erano tutti vicino a noi, di Palermo, ah? Non serve nessuno». Specie se pur di ottenere sconti e privilegi certi pentiti sono disposti anche a tradire i parenti stretti. Come ha fatto Antonino Pipitone, che ha fatto arrestare suo zio Vincenzo per l’omicidio di Felice Orlando, freddato nel 1999 in una macelleria dello Zen: «Lo hai sentito quello come lo ha segnato a suo zio Enzo? Per il discorso, questo della carnezzeria dello Zen? Lo ha distrutto. Perché aveva la speranza di uscire altri quattro anni, lo ha ammazzato», osserva. «Minchia che sbirro proprio!», commenta di rimando un altro sodale.

E non sono pochi, in effetti, i collaboratori di giustizia che hanno avuto qualcosa da dire sul mandamento appena finito a gambe all’aria. Dallo storico capo dell’Acquasanta Vito Galatolo, che ad aprile racconta ai magistrati di quella volta che «era a Boccadifalco per salire per Baida, cercavamo Franco Inzerillo, ‘u nivuru, non mi ricordo, per una presentazione di uomini d’onore», ai più recenti Francesco Colletti e Filippo Salvatore Bisconti, fermati il 4 dicembre 2018 durante il blitz Cupola 2.0 e accusati di reggere le famiglie di Misilmeri e Belmonte Mezzagno. Coinvolti entrambi nella ricostituzione della commissione provinciale, una volta avviati i rispettivi percorsi di collaborazione con la giustizia, hanno spiegato i meccanismi di funzionamento e le regole organizzative del rinnovato organismo collegiale ed è stato da subito sorprendente notare come tali meccanismi siano risultati perfettamente sovrapponibili ai precetti che trovati nel pizzino nascosto nel covo dei Lo Piccolo al momento e ritrovato durante il loro arresto, nel 2007. Dichiarazioni, le loro, caratterizzate da un «elevatissimo grado di attendibilità», dovuta non solo al fatto che entrambi erano parte integrante dei meccanismi in gioco per ricostituire la commissione, ma anche perché tutto quello che raccontano coincide alla perfezione. Ma l’elenco continua con chi dentro c’è finito prima di loro, come Sergio Macaluso, in passato per i magistrati reggente del mandamento di Resuttana, e Antonino Pipitone, esponente apicale della famiglia di Carini. 


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