Strage di Capaci, perché Falcone doveva saltare in aria «Era un fatto di morale, aveva creato una sfida con noi»

«L’obiettivo principale era Falcone, ormai era diventato un ostacolo in tutti i sensi, politico, mediatico, sotto ogni punto di vista». Lo raccontava solo pochi mesi Giovanni Brusca, il fedelissimo di Totò Riina che quel 23 maggio ‘92 ha premuto il tasto del telecomando che ha fatto saltare in aria un tratto dell’A29, allo svincolo per Capaci. «Ho vissuto sin dal 1980 la fase preparatoria della strage. La volontà di ucciderlo nasce subito dopo l’omicidio di Chinnici – significa già dal luglio dell’83 -, perché era suo erede». Così lui e altri boss si mettono a studiare le abitudini del giudice, lo seguono e lo osservano per circa sei mesi per capire quando sarebbe stato il momento giusto per colpirlo. «Sono stati fatti tanti tentativi, andati tutti a vuoto». Tutti, tranne uno purtroppo. Il disegno per eliminare Giovanni Falcone nasce, insomma, da lontano, molto prima di quel tragico giorno di 27 anni fa. «Solo che nel frattempo si erano messe in mezzo altre valutazioni, altre esigenze».

Ma in che modo eliminare un magistrato, persino della levatura di Falcone, poteva risolvere i problemi di Cosa nostra? «Era un fatto di morale – ha spiegato lo stesso Brusca -, quando non riesco ad avvicinare un magistrato per ottenere un risultato, tramite la politica, la corruzione, la massoneria o altri soggetti, questo oltre a non farsi avvicinare respinge le richieste e crea un fatto quasi di sfida. Falcone, così come Chinnici prima, ci metteva in difficoltà». E ci riesce, a sentire il pentito di San Giuseppe Jato, anche a distanza. Falcone rimaneva un problema anche lontano chilometri, anche dal suo nuovo ufficio nella Capitale. «Il fatto che si era trasferito a Roma agli affari penali fu la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché si capì subito che andava a fare quello che non gli era riuscito di fare da magistrato e a Palermo lo sapevano tutto che si era letteralmente otturato il naso per andare a ricoprire quel ruolo offerto da Martelli».

«Fu per tutti noi un segnale chiaro e traumatico per Cosa nostra e per Riina soprattutto – insiste Brusca -, che lottava non per ammorbidire il maxi processo ma per evitare gli ergastoli». Era convinto, il capo dei capi, che si sarebbe goduto una tranquilla vecchiaia nella sua Corleone, dove «si era costruito la casa». Ma quel maxi gli vale un ergastolo durissimo. È un affronto che va punito. E il metodo è uno solo, sempre lo stesso, il sangue. «Mi ha dato l’incarico di eliminare Falcone a Palermo, dopo i precedenti tentativi falliti di attentato usando un’autobomba a distanza. Avevamo tentato in via Notarbartolo, un’altra volta avevamo provato in un sottopassaggio pedonale, ma non si era riusciti ad arrivare fino in fondo». Da qui l’esigenza di seguirlo per studiarne accuratamente mosse e abitudini. Un piano che va avanti per mesi, con scrupolo, dedizione. L’ordine ufficiale, l’ultima parola di Riina, arriva addirittura un mese e mezzo prima del 23 maggio, dopo l’omicidio di Salvo Lima, ucciso il 12 marzo.

«L’omicidio di Falcone è stato voluto da Cosa nostra, ma all’inizio era stato stabilito con i cugini Salvo, che erano della corrente Lima-Andreotti – racconta il pentito -. Quando Ignazio Salvo mi venne a dire che non c’era più bisogno di ammazzare a Falcone, tra l’86 e l’87, io l’ho riferito a Riina. Ma lui ha detto che i Salvo e Lima si erano fatti i patti tra di loro tagliando fuori noi e che quindi al giudice dovevamo ammazzarlo ugualmente, e se non si mettevano la testa a posto avrebbe ucciso anche a loro. Si sentì in qualche modo scaricato. Quando Riina si metteva una cosa in testa non tornava indietro, doveva succedere un miracolo». Ci provano infatti pochissimo tempo dopo, il 21 giugno 1989, piazzando un borsone pieno di candelotti sugli scogli davanti la casa al mare del giudice, all’Addaura. Ma qualcosa va storto e quell’attentato fallisce, portandosi dietro domande ancora oggi senza risposta, per non parlare dei morti, dall’agente Nino Agostino all’ex collaboratore del Sisde Emanuele Piazza, tutti e due presumibilmente cacciatori di latitanti.

È tentativo dopo tentativo che si arriva alle 17.58 di quel maledetto 23 maggio ’92. «Ero in autostrada, stavo andando a Terrasini e rimasi bloccato». «Tornavo da scuola, sul ponte di via Belgio…tutto bloccato…una distesa di macchine che mi ha impedito di tornare a casa. Alla radio la terribile notizia, silenzio assordante malgrado il traffico, non si dimentica». «Ero ad una festa di compleanno tra bambini in piazza principe di Camporeale. Alla notizia mi è caduto il mondo addosso. Era morto un parente stretto. Io lo stimavo tanto. Il mondo era più vuoto e con un significato in meno». Sono solo alcuni dei ricordi che i palermitani hanno di quel giorno, per tutti il denominatore comune è, oggi come allora, un profondo senso di sgomento, di vuoto, che puntualmente ogni anno si ripresenta alla porta accomodandosi senza troppi complimenti. 


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