Con la Unigroup si è imposto nei rifornimenti per ristoranti e grande distribuzione. Ma per riuscirci avrebbe beneficiato del supporto di esponenti dei clan. Al vaglio anche i rapporti con una società riconducibile a uno dei fiancheggiatori di Messina Denaro
Le ombre sulla nascita del regno di Roberto Cappuccio Il mafioso: «Prenditi la sua merce, è un amico nostro»
«Abbiamo azzeccato tutti i colpi». Stava tutta in queste parole, meno di due mesi fa, la soddisfazione di Roberto Cappuccio per la riuscita di Uniday Expo, evento fieristico dedicato al settore food and beverage che si è svolto a metà marzo in un resort a cinque stelle del Siracusano. A impreziosire la scena la presenza del noto chef Alessandro Borghese. Quella stessa frase acquisisce un significato diverso, leggendo il decreto con cui il tribunale di Catania ha disposto il sequestro del patrimonio riconducibile all’imprenditore leader delle forniture alimentari a locali e grande distribuzione.
Il provvedimento, del valore complessivo di circa 40 milioni di euro, riguarda il cento per cento del capitale di tre società – Unigroup spa, Be.Ca srl e Family Group srl – oltre che una serie di beni immobili, come nel caso di una villa da dieci vani più piscina, un resort a Fontane Bianche, un ristorante e un bar. Congelati anche rapporti bancari e conti correnti intestati ai familiari del 54enne. La misura poggia su un assunto: Cappuccio è un «soggetto socialmente pericoloso» e questo per via dei suoi rapporti con esponenti della criminalità organizzata. Dal clan Bottaro-Attanasio alla famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano, in particolar modo con la cellula attiva nel Messinese.
A scandagliare nel passato più o meno recente di Cappuccio sono stati i finanzieri del comando provinciale di Catania, con la collaborazione dei colleghi dello Scico. Il 54enne è attualmente sotto processo a Messina, in seguito all’operazione Beta, con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Per i magistrati, infatti, Cappuccio e altri soci della Cooperativa italiana catering, con l’intento di recuperare un debito contratto da un imprenditore che rifornivano, avrebbero chiesto l’intervento di Enzo e Francesco Romeo, rispettivamente nipote e cognato del boss catanese Nitto Santapaola.
Ma quello di rivolgersi a esponenti della criminalità organizzata, cercandone il sostegno in cambio della disponibilità a dare ai loro affari – fornendo fideiussioni bancarie, cedendo merce ma anche assumendo personale – sarebbe stato un tratto distintivo di Cappuccio. Una strategia che avrebbe dato i suoi frutti, assicurandogli di operare al riparo dalla concorrenza. A parlare di ciò è un collaboratore di giustizia: Rosario Piccione. Ex esponente dei Bottaro-Attanasio, clan che opera nella provincia siracusana, Piccione accosta Cappuccio a Ernando Di Paola. Quest’ultimo ha 51 anni e in passato è stato già condannato per mafia. Con il numero uno della Unigroup avrebbe intrattenuto rapporti che sarebbero andati al di là delle relazioni imprenditoriali: «Cappuccio ha anche contribuito al mantenimento di Di Paola nel periodo della sua latitanza», racconta il collaboratore di giustizia ai magistrati. Ma ci sarebbe stato molto di più: «Quando Cappuccio cerca clienti – rivela Piccione – se c’è qualcuno che non si vuole prendere la merce, perché la prende per esempio a Catania, interviene Nando Di Paola e gli dice: “Prenditi la merce perché Cappuccio è amico nostro e la devi prendere qua”».
A chi è avvezzo alla cronaca nera, il nome di Di Paola non suonerà nuovo. L’uomo, infatti, è tra le persone coinvolte in quella che viene ricordata come la strage di San Marco. Era una notte di fine estate del 1992 quando, in una villetta tra Palazzolo Acreide e Noto, un commando sorprende un gruppo di uomini legati al clan Urso. Vengono gettate bombe a mano, che non esplodono, e poi esplosi colpi di pistola e lupara. Gli obiettivi riescono a fuggire in auto, ma vengono inseguiti. Alla fine si conteranno sette feriti. L’unico a non essere colpito è proprio Di Paola, all’epoca 25enne. Insieme a lui, quella sera, si trovava anche Salvatore Scala, risultato dipendente della Unigroup tra il 2007 e il 2011.
La vicinanza a soggetti considerati contigui a Cosa nostra si sarebbe registrata anche dalla parte opposta della Sicilia. Nel decreto di sequestro si citano infatti anche i rapporti tra Unigroup e Latterie Provenzano, società con sede legale a Giardinello nel Palermitano. Tra le due imprese, secondo gli inquirenti, potrebbe esserci stato un giro di fatture per operazioni inesistenti. Gli elementi di maggiore interesse si scoprono tuttavia guardando oltre la ditta palermitana. Latterie Provenzano, infatti, nel 2015 stipula un contratto di affitto di azienda con la Alimentari Provenzano, società le cui quote appartengono a due imprese riconducibili a Giuseppe Grigoli. Quest’ultimo è un nome noto alle cronache giudiziarie. A metà anni Duemila finisce al centro di un processo che vede tra gli imputati anche il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Per i giudici di Palermo, che lo condannano, Grigoli è uno dei fiancheggiatori della primula rossa. Nella sentenza si legge che l’imprenditore ha «messo a disposizione dell’articolazione provinciale trapanese di Cosa Nostra i propri mezzi e risorse imprenditoriali».
Per gli inquirenti a dimostrazione di come Cappuccio sia il dominus di Unigroup c’è un fatto. Accade la mattina del giorno in cui l’uomo è arrestato. In quelle ore viene convocata l’assemblea ordinaria dei soci. Durante la seduta si prende atto della decadenza dell’intero consiglio d’amministrazione della società. A subentrare nel nuovo cda è Emanuele Cappuccio, uno dei figli. A lui, poche ore, viene data anche l’autorizzazione a svolgere qualsiasi operazione finanziaria per conto della società.