Sul banco dei testimoni due funzionari della polizia sudanese. Uno di loro ammette anche di lavorare per la polizia segreta che ha sostenuto il regime del dittatore. Tra discrepanze nei racconti, il ruolo fumoso dell'Nca britannica e lo sfogo dell'imputato
Caso Mered, servizi segreti di al-Bashir dietro l’arresto? Il giovane in carcere: «Mi hanno picchiato e derubato»
Quasi quattro ore di discussione in aula per scrivere l’ennesimo capitolo della vicenda che vede come protagonista un giovane eritreo, finito in manette in Sudan con l’accusa di essere Mered Medhanie Yedhego, uno dei principali trafficanti di esseri umani sulla tratta che dall’Africa, attraverso la Libia, porta le persone in Europa. Al banco dei teste si sono seduti Elsadeg Mohamed Elnour Abdelrahman, funzionario di polizia sudanese e il colonnello Amir Ibrahim Abdelsadig, suo superiore. Entrambi coinvolti nell’arresto del giovane, avvenuto a Karthoum ormai oltre due anni fa. Un arresto le cui dinamiche non sono mai state del tutto chiarite.
E anche oggi in aula molte ombre sono rimaste su diversi punti del racconto dei due funzionari di polizia africani. Già a partire dalle prime domande del pubblico ministero Geri Ferrara, infatti, Abdelrahman si è dimostrato vago, persino riguardo alla carica da lui ricoperta in polizia. «Faccio parte di una polizia senza divisa – dice – Non facciamo le indagini, facciamo solo gli arresti». E ancora: «Sono un assistente di polizia», «È una polizia civile, non vesto una divisa». Ci vorranno diverse ore, la testimonianza di Abdelsadig e una domanda ben precisa per capire che l’uomo lavora per la National intelligence and security service, i temuti servizi segreti sudanesi all’epoca dei fatti al soldo del dittatore Omar al-Bashir.
Abdelrahman racconta di avere ricevuto la foto del ragazzo da arrestare e il numero del telefono che sarebbe stato nelle sue disponibilità da alcuni agenti della National crime agency britannica, durante una riunione a cui avrebbero preso parte «diversi europei». Riunione a cui tuttavia non partecipò il colonnello Abdelsadig, che nella sua deposizione racconta di avere ricevuto il materiale sul sospetto da arrestare dai suoi superiori, solo in un secondo momento. «Abbiamo chiesto in giro mostrando alla gente la fotografia che avevamo – spiega Abdelrahman al pm che gli chiedeva in che modo fossero riusciti a trovare l’uomo da catturare – Alla fine l’abbiamo trovato dopo cinque o sette giorni in una sala biliardo, abbiamo aspettato che uscisse e lo abbiamo arrestato». L’assistente di polizia ha mostrato dunque la foto che gli era stata consegnata e ne ha fornite al tribunale altre due scattate solo dopo l’arresto. E proprio in una di queste due fotografie l’imputato, che da sempre sostiene di essere Medhanie Tesfamariam Bhere, un profugo eritreo di stanza a Karthoum in attesa di lasciare il Paese verso l’Europa, ha riconosciuto l’uomo che durante il suo arresto lo avrebbe picchiato. E lo ha rivelato lasciando una dichiarazione spontanea.
«Eravamo sei persone al momento dell’arresto – continua il racconto Abdelrahman – in rappresentanza di cinque polizie diverse. Io guidavo l’auto. Non aveva niente in tasca, né soldi né documenti. Ci siamo fatti indicare dove fosse la sua abitazione, lì abbiamo trovato i suoi vestiti in una valigia insieme a dei documenti scritti in eritreo. Abbiamo capito che la valigia era la sua perché i vestiti erano gli stessi delle foto che avevamo – dice prima, poi precisa – Sapevamo che la valigia era la sua perché è stato lui a indicarcela». Nella sua dichiarazione spontanea, l’imputato ha invece parlato di un arresto più concitato, di percosse e della sparizione dei suoi documenti: compresi quelli che portava dall’Eritrea e che aveva fatto quando aveva 18 anni. E ha anche accusato gli uomini che lo hanno incarcerato di essersi dapprima impadroniti dei suoi soldi, spartendoseli, e di avere in un secondo momento persino tentato di togliergli i vestiti di dosso. Accuse rigettate dal poliziotto sudanese, interpellato in merito a margine dell’udienza.
E poi c’è la figura del colonnello Amir Ibrahim Abdelsadig, che si sarebbe occupato del prigioniero nel periodo successivo all’arresto. Dice di avere visto la busta con le prove sequestrate al giovane ma di non averci guardato dentro, di averlo interrogato e di avere sentito che il suo nome fosse diverso da quello del trafficante ricercato, ma di non averlo comunicato ai propri superiori perché comunque i nomi si assomigliavano. «Quando l’ho interrogato – dichiara – ha detto di non essere un trafficante, di conoscere una persona che ha aiutato tre suoi amici a passare il confine verso la Libia per 1800 dollari e di essere intenzionato a fare la stessa cosa». Entrambi i funzionari di polizia hanno dichiarato che tanto l’arresto quanto la perquisizione corporale e della casa dell’imputato siano stati messi in atto senza la presenza di un avvocato. «La legge lo prevede – dice il colonnello Abdelsadig – ma non gliel’ho ricordato e non l’ha richiesto». Secondo Abdelrahman, invece, «in Sudan funziona così, non abbiamo bisogno di chiedere il permesso alla magistratura per fare perquisizioni a chi è senza documenti». Elementi questi che, a detta di Michele Calantropo, avvocato dell’imputato, sarebbero in netto contrasto con l’articolo sei della carta internazionale dei diritti dell’uomo.