Il metodo di Cosa nostra per manipolare le gare nella struttura della Favorita, ormai chiusa da un anno, è quello delle imposizioni e delle minacce. Con qualcuno, però, non avrebbero funzionato. «Ha fatto perdere a tutta Palermo, un cafone e un cornuto»
Mafia e ippodromo, il fantino che non si è piegato «Qua succede danno, ora gli va a scippare la testa»
«Lo hai visto cosa mi ha combinato?». Non si dà pace Giovanni Ferrante, finito tra gli indagati del blitz di ieri mattina che ha aggiunto un ulteriore tassello al legame che unisce Cosa nostra palermitana e l’ippodromo della Favorita, non a caso chiuso da un anno per interdittiva antimafia. Non riesce ad accettare come malgrado le imposizioni e le minacce, efficaci quasi con tutti, ci sia un fantino che a dispetto degli altri dell’ambiente non si vuole abbassare alle direttive della consorteria mafiosa. «L’unico che non si è voluto mettere a disposizione – torna a dire -. L’unico che non si è voluto calare è lui. Ora vedi, gli dici che si prende le valige e porta i soldi perché lo ammazzo a bastonate…Mi faccio arrestare qua, digli che mi deve dare i soldi». È il 28 aprile 2017: a raccogliere le sue lamentele, ignaro di essere intercettato dagli inquirenti, è Sergio Napolitano, per i magistrati il successore di Giovanni Niosi a capo del mandamento mafioso di Resuttana, colpito dall’operazione Talea proprio un anno fa. « Quello è un pazzo messo che fa il pazzo! – dice -. Un sacco di milioni abbiamo perso, un sacco di milioni…».
A entrare presto a gamba tesa nella discussione è pure Massimiliano Gibbisi, anche lui tra gli indagati coinvolti nel blitz. Secondo lui il fantino avrebbe addirittura «vinto per sfregio», in barba alle indicazioni ricevute prima della gara, rifiutando di fatto l’accordo e facendo perdere una somma consistente a chi pensava di averlo istruito a dovere. «Non è giusto perdere così – si lamenta subito -. Questo cavallo lo ha battuto per forza, per sfregio… No, lo devo uccidere, c’è da impazzire». Una rabbia palpabile, quella di chi si è sfogato regalando preziose informazioni ai microfoni degli investigatori in ascolto. Conseguenza di un danno che per il solo Gibbisi ammonterebbe addirittura a diecimila euro di mancata vincita. Ma dalle lamentele all’idea di alzare le mani al fantino ribelle per fargliela pagare il passo sembra essere stato piuttosto breve.
«Lui praticamente ha fatto perdere a tutta Palermo», continua a dire intercettato Napolitano a Gibbisi. Segno, questo, che il conto salato non avrebbe dovuto pagarlo un singolo scommettitore perdente e che quello di manipolare le gare rappresentava un metodo per finanziare le casse di Cosa nostra, non certo dei singoli affiliati. «Mi aveva chiamato quello…era felice, mi dice “minchia pure qua facciamo il botto”…poi faceva come un pazzo, al telefono le parole…ma secondo me ora succede danno – si preoccupa Napolitano -. Ora gli va a scippare la testa». Un danno enorme causato da un fantino uscito di razza, considerando che invece, a sentire loro, il padre, fantino pure lui, era sempre stato «un bravo ragazzo», uno cioè che a differenza del figlio non aveva mai dato problemi, piegandosi alle direttive di volta in volta ricevute. Il figlio invece era «un crasto», sottolinea a più riprese Gibbisi.
«Sì, un gran cafone, un cornuto – replica Napolitano -, questa sera lo ammazza, succede di sicuro qualcosa». Invece non succede proprio niente. Gli investigatori, dopo aver intercettato animi e intenzioni delle persone coinvolte nell’indagine, avvisano subito il fantino ribelle. Che, però, dal canto suo è convinto di non correre alcun pericolo. L’unico episodio che lo mette in allarme, rispetto al mondo dell’ippica, è quello di una corsa palermitana che circa due mesi prima era stata sospesa per gioco anomalo. Nessuna allusione, invece, a direttive, intimidazioni o minacce.