Etta, voce sicula che incanta la Germania «Catania? Città fighetta, mi rattrista»

Etta Scollo è – prima di tutto – un personaggio. Lo è perfino quando arriva al Café Manzini di Berlino in sella alla sua bicicletta e, trafelata, comincia a scusarsi (in tedesco) per il ritardo. La simpatia, nei confronti di questa cinquantenne ragazza siciliana dalla voce inconfondibile, è praticamente immediata. Etta vive a Berlino da poco più di un lustro e in Germania da quasi un ventennio. Ha viaggiato molto, più per amore che per lavoro, seguendo “quell’incoscienza di un’eterna innamorata” che ne ha contraddistinto la vita e la musica.

Le sue canzoni sono conosciute in tutto il nord Europa, un po’ meno in Italia, dove resta ancora un’artista di nicchia. Ha pubblicato oltre tredici dischi: l’ultimo, Cuoresenza (Trocadero, 2011), è un concept album che racconta la storia di un cuore che un giorno scopre di avere perso il corpo cui apparteneva, e da quel momento comincia a viaggiare attraverso le canzoni che hanno segnato i capitoli della sua vita.

Cominciamo proprio da qui. Com’è nata l’idea?
Cuoresenza è stato, come direbbero qui in Germania, “una scelta di pancia”. Il disco è nato da un motivo emozionale, dalla crisi seguita alla fine di una relazione durata diciotto anni. Il cuore di cui parlo è il mio: un cuore alla ricerca dell’armonia perduta, dell’equilibrio svanito tra emotività e razionalità. Quest’album è nato dall’esigenza di capire perché l’amore finisce, perché ci si sente soli e come ci si può ritrovare e ribilanciare emozionalmente. É stata una specie di terapia per me, ed è servito.

In Cuoresenza, alle tue reinterpretazioni di grandi classici della canzone italiana si affiancano composizioni originali e poesie musicate. Come hai scelto i vari capitoli che compongono il racconto?
Ho voluto canzoni che hanno per me un grande significato e hanno segnato la mia vita: da “La donna riccia” di Modugno, che cantava mio padre quand’ero bambina, a “Canzone dell’amore perduto” di De Andrè, che descriveva alla perfezione il mio stato d’animo nel periodo delle registrazioni. Ci sono poi atmosfere completamente diverse, quelle ironiche di Jannacci e di Stefano Benni e quelle romantiche di Battiato. Fino a Cuoresenza, l’unico brano di cui ho scritto sia musica che testo, in un certo senso la conclusione del viaggio che racconto nel disco. Mi sono astenuta dallo scrivere e dal comporre troppo. Mi sono affidata ad un produttore cui ho delegato la scrittura degli arrangiamenti – cosa che, in genere, non faccio – per riuscire a concentrarmi solo sulla parte interpretativa ed emotiva. Ho avuto momenti di crisi, ho pianto, avevo anche ripreso a fumare. Prendi ad esempio Die Novak, l’unico brano in tedesco: l’abbiamo registrata alle 9 di mattina, la sera prima ero stata ad un concerto ed ero distrutta, fisicamente ed emotivamente… Tutti questi elementi credo si possano sentire nelle canzoni.

A maggio comincerai un nuovo tour, l’ennesimo per te in Germania. Com’è l’accoglienza del pubblico tedesco nei tuoi confronti e come è cambiata nel corso degli anni?
Ormai tra me e il pubblico tedesco si è instaurato un rapporto di amicizia. Comunque, in generale, l’accoglienza dei tedeschi è sempre calorosa. É un pubblico mediamente molto acculturato che ha sempre avuto un grande amore per l’Italia. Basti pensare a Goethe e al suo “Viaggio in Italia”. Talvolta, dopo i concerti, qualcuno mi si è presentato portando i 45 giri di Rita Pavone o di Mina degli anni ’60, cantati in tedesco. Rispetto a prima, oggi ai tedeschi piace ascoltare l’italiano. Allora invece i cantautori si adattavano, facevano i cosiddetti Schlager (canzone leggera kitsch, ndr)… era divertente, Mina cantava anche in tedesco pur non sapendo neanche cosa dicesse. Il pubblico tedesco ha seguito l’Italia sempre e ne ha seguito tutti i cambiamenti, anche politici, culturali, artistici. Ha sempre guardato all’Italia con interesse e curiosità, con un occhio diverso da quello dei francesi o degli inglesi, un occhio più vigile, più costante e anche più fedele.

Tu sei emigrata in Germania ormai due decenni fa. Come ci vedono i tedeschi ora e cos’è cambiato rispetto a prima?
Oggi l’italiano ha perso quel senso esotico che aveva un tempo. Non è più l’immigrato in cerca di lavoro, non è più l’operaio della Volkswagen. In compenso, ha mantenuto quella spontaneità che ai tedeschi piace tantissimo: noi siamo quelli che aprono la porta a tutti, quelli che ti invitano a cena senza tanti complimenti. Loro vengono molto colpiti dalla nostra accoglienza, si divertono e, dopo lo stupore iniziale, si lasciano trascinare. Questa ventata di italianità dà a Berlino, la città in cui adesso vivo, una connotazione diversa, più internazionale.

Da quanto tempo vivi a Berlino?
Sono arrivata qui tardi, nel 2005. Ci volevo venire già da tanti anni – prima vivevo ad Amburgo – ma il mio compagno non voleva. Quindi ci venivo clandestinamente. Prendevo il treno veloce, che qui è davvero veloce: in un’ora e mezza sei in città, giusto il tempo di leggere un giornale. Venivo a trovare i miei amici. Berlino è un po’ la New York degli anni ’80 come vitalità e come quantità di eventi e di movimenti culturali che la attraversano. Quando finalmente abbiamo deciso di venire a Berlino, il nostro obiettivo era quello di dare una svolta alla nostra vita e alla nostra relazione. Ma le cose non si risolvono semplicemente cambiando città. Per me trasferirmi a Berlino ha significato vivere una crisi personale e iniziare una nuova fase. All’inizio vivevo in periferia, a Lichtefeld. Praticamente in campagna: incontravo più spesso volpi e scoiattoli che persone, non c’era vita sociale e questo mi pesava. Con la fine della nostra relazione, mi sono spostata a Wilmersdorf, più vicino al centro, dove ho comprato casa. Qui ho riscoperto la città, giro in bicicletta, ho riallacciato anche tanti rapporti. Mi sono ributtata nella vita e sono molto felice. A Berlino sto benissimo.

Da Catania a Berlino la strada è lunga. Quali sono state le tappe intermedie?
La mia è una biografia un po’ anomala. Vengo da una famiglia siciliana molto aperta, di sinistra. Mio padre era un avvocato che lottava contro la mafia. Per lui avrei prima di tutto dovuto studiare e rendermi autonoma. Io invece scelsi di sposarmi a diciotto anni e di seguire il marito al nord. Questo lo sconvolse. Mi ritrovai a Torino alla fine degli anni ’70, gli anni peggiori, gli anni di Piombo. Li cominciai a studiare architettura, ma Torino al tempo era davvero una città invivibile, tanto che decisi di andarmene. Così emigrai a Vienna, dove mi iscrissi al conservatorio. Avevo lasciato mio marito e seguivo un pianista di cui mi ero follemente innamorata. Al tempo Vienna era una città in trasformazione, con un’anima a metà tra tradizionale e libertina. Le signore indossavano i cappellini con la piuma e poi, a casa, parlavano di sesso in modo molto libero, bevevano lo Schnaps e facevano la sauna. Io ero un controsenso vivente… una siciliana a Vienna non si era mai vista. Spesso mi sentivo fuori luogo. Così stetti per cinque anni con la valigia già pronta sulla soglia. E alla fine, sentii che era arrivato il momento di partire ancora.

Verso quale meta?
Al seguito di un nuovo, grande amore, mi trasferii ad Amburgo. Anche lì fu un’esperienza particolare, perché è una città profondamente nordica, quasi anglosassone. Essendo una città di porto, è molto aperta. Basti pensare al Reeperbahn, un viale pieno di locali di strip-tease, che oggi è diventata attrazione per turisti. La scena musicale è molto interessante. Tenni uno dei miei primi concerti allo Star-Club, il locale dove hanno suonato anche i Beatles durante il loro periodo tedesco.

Continua a leggere l’intervista su Linkiesta.it

 

[Foto tratta dal sito ufficiale di Etta Scollo]


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