Charbi e Sephora, fratello e sorella morti in mare I fiori, le lacrime e quel canto che dice «Goodbye»

C’è una cantilena che, all’orecchio abituato alle celebrazioni cattoliche italiane, non sembra neanche un canto di dolore. Il ritornello dice «Goodbye» per tre volte e si interrompe quando il grido straziante della mamma di Charbi e Sephora spiega un concetto semplice: due figli che muoiono insieme, inghiottiti dal mare, è un dolore che nessun essere umano dovrebbe sopportare. Le due bare sono accostate l’una accanto all’altra all’obitorio del cimitero di Catania. Una stanza angusta, in cui è difficile non sentire l’odore fortissimo che proviene dai frigoriferi, nascosti dietro a una porta a vetri. Lo spazio è troppo piccolo per le decine di persone che sono arrivate per salutarli. Con le lacrime agli occhi, stringendosi tra loro e ricordando questa o quella giornata. C’è anche il padre di Charbi e Sephora, pantaloni e maglietta nera, arrivato dalla Francia dove lavora come manovale. Il primo a mettere piede in Europa, dal Congo, è stato lui. Proprio a Catania, dove aveva ottenuto di potersi ricongiungere con la moglie e con i tre figli ancora minorenni: Sephora, che quando è morta stava per compiere 18 anni, Charbi che di anni ne aveva 16, e il bimbo più piccolo, che adesso di anni ne ha dieci.

Di anni dal giorno in cui sono arrivati in Italia ne sono passati. Il padre, però, è andato a vivere al di là delle Alpi perché lì era più facile ottenere un lavoro regolare, con un contratto vero, e l’ipotesi che il permesso di soggiorno si trasformasse in cittadinanza. La madre e i tre ragazzi, invece, sono rimasti a Catania. Lei, racconta chi la conosce, fa la badante per tutta la settimana, tutto il giorno, per 450 euro al mese. Soldi con cui paga i 350 euro di affitto di quel monolocale soppalcato in una traversa di via Umberto, al pianterreno. Storie di ordinaria migrazione, nell’Europa che oggi ha in agenda il tema dell’accoglienza e fino a ieri no. Il marito mette da parte tutto quello che può e lo manda a lei e agli altri cinque figli, maggiorenni, rimasti in Congo in attesa che si potesse realizzare il progetto familiare: andare a vivere tutti in Francia, con un contratto e uno stipendio meno da fame che in Italia. Anche Charbi, appena diventato maggiorenne, avrebbe voluto raggiungere il papà e fare il muratore, come lui. Oppure continuare a giocare a calcio. «Era un mago col pallone», racconta la mamma del suo migliore amico. Sulla sua bara, adesso, c’è la maglia della sua squadra di calcio, col numero scritto sopra (il 21), che a stento si vede sotto a quella foto di lui che sorride. Così come sorride Sephora, nella foto appoggiata sulla bara accanto. 

Tutt’e due vicini, un po’ come sono morti: la mattina dell’8 giugno, Charbi avrebbe dovuto essere a festeggiare la fine della scuola con i suoi compagni della Cavour, l’istituto che frequentava e in cui, l’anno prossimo, avrebbe preso la licenza media. Anche Sephora le medie le aveva finite, alle serali, e adesso faceva qualche lavoretto e poi aiutava la mamma in casa e si prendeva cura di quel bambino di dieci anni che adesso è rimasto figlio unico, a Catania. Quell’8 giugno il mare era troppo agitato per fare il bagno, ma loro ci erano voluti andare lo stesso. Secondo quello che raccontano alcuni fuori dal cimitero, il bagnino dello stabilimento balneare accanto alla spiaggia libera numero 1 li aveva avvisati che era meglio fare attenzione. Ma non è stato sufficiente: non si sa bene chi dei due abbia avuto le prime difficoltà. Probabilmente Sephora, perché Charbi era uno sportivo e si allenava di continuo. Lei non sarebbe riuscita a rimettere la testa fuori dall’acqua, lui avrebbe tentato di aiutarla, ma le onde – pure alla Playa – a volte ti trascinano troppo lontano. Il primo corpo a essere recuperato è stato quello di Sephora: i soccorsi sono arrivati subito, hanno tentato di rianimarla, ma niente. Charbi lo hanno trovato quattro giorni dopo, nei pressi del porto, la corrente lo aveva spinto verso la città.

«Charbi? Sephora? – li chiama – Perché? Perché voi? Perché a me?». La mamma non riesce a parlare e pure i singhiozzi le spariscono in gola. Ci sono due ragazzi congolesi altissimi e muscolosi. Svengono tra le lacrime a ridosso delle due bare, si accartocciano come fossero fatti di carta. Per uno di loro deve arrivare un’ambulanza. I vestiti coloratissimi delle donne che cantano fanno da contraltare alle lacrime dei compagni e delle compagne di classe di lui. Le bare saranno seppellite martedì, perché i lavoratori del Comune di Catania che se ne occupano sono in servizio solo di mattina e solo nei giorni feriali. «Di sabato e domenica non si seppellisce nessuno – dice un dipendente Multiservizi – Non è per qualche motivo particolare, è che non c’è nessuno di turno». Il tono pare quello di chi vuole mettere le mani avanti: non è perché vengono dal Congo, è così per tutti. Sembra quasi dispiaciuto.

Dentro all’obitorio, intanto, c’è un momento di silenzio. Due ragazzine tengono insieme un foglio di carta, sono compagne di classe di Charbi, la II L. Raccontano gli scherzi in classe, le barzellette, ancora quel gioco del pallone, le volte che Sephora raggiungeva Charbi prima che entrasse a scuola perché aveva dimenticato le chiavi di casa. E poi, mentre si tengono abbracciate e la voce trema concludono: «Non sappiamo dove vanno le persone che cessano di esistere, ma sappiamo dove restano. Sempre nel nostro cuore».


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