A piazza Lanza il sottosegretario Alberti Casellati visita la vecchia struttura del 1911 insufficiente per i suoi 588 detenuti. Celle piccole, inadeguate e sovraffollate. Ma almeno qualcosa sembra funzionare: laboratori e colloqui tra i detenuti e le famiglie
Stare in carcere a Catania Poche luci, troppe ombre
«Lamnistia ci voli ca, ca semu pessi» grida uno dei detenuti del reparto Nicito, quello di isolamento della casa circondariale di piazza Lanza a Catania durante la visita di ieri mattina del sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nella lunga ispezione, condotta assieme a un gruppo di giornalisti, la senatrice del Pdl ha avuto modo di rendersi conto dei punti di forza e di debolezza del carcere.
Tante le carenze. Celle piccole, inadeguate a volte, come nel reparto Nicito, al limite dellagibile e sovraffollate. Sono 588 i detenuti, nonostante la capienza tollerabile sia di circa la metà – 220 – in una struttura del 1911 che avrebbe anchessa bisogno di una ristrutturazione. «Dovrebbero essere in tre al massimo per avere un po di spazio vitale, ma la situazione è questa» afferma Rosario Tortorella, direttore del carcere catanese.
Se alcuni reparti sono completamente inagibili e quindi chiusi, in altri come il settore Amenano sono reclusi fino a dieci per cella. Stessa situazione nel settore femminile Etna. «Talia quantu semu, troppi» ripetono più voci da dietro le sbarre. Il peggiore è di certo il reparto per lisolamento in cui non solo le celle sono piccolissime, ma anche vecchie, segnate dall’umidità e con crepe evidenti sui muri. La zona daria del reparto, poi, è una struttura-cassone decrepita, ingabbiata e piccola.
Varie le attività svolte dai detenuti, ma non da tutti, quelli in isolamento non ne hanno accesso. Dalla tessitura di tappeti allo studio per ottenere la licenza scolastica, dallitaliano per stranieri alla lavorazione del legno per icone rappresentative, dai corsi di parrucchiere a quello di estetista. Per quattro ore al giorno i detenuti che ne fanno richiesta possono impegnarsi in progetti differenti, che «vogliamo potenziare perché tengono impegnati e danno professionalità. Magari qualcuna potrebbe diventare una attività commerciale, come per esempio la produzione di tappeti» afferma Tortorella. «Non solo è rilassante e ti impegna, è soprattutto gratificante. Lo faccio con molto entusiasmo» conferma uno dei tessitori.
Fondamentale per i carcerati è il rapporto con la famiglia. «Mia figlia è la cosa che mi manca di più in assoluto» afferma una studentessa che si prepara alla licenza elementare, reclusa da 5 anni e 4 mesi. Da questo punto di vista, il carcere di Catania rispetta le esigenze dei detenuti. Possono incontrarsi sei volte al mese, quattro in casi specifici, in tre stanze attrezzate con tavoli e sedie, piccole, ma tutto sommato accoglienti. «Sono soddisfatta del metodo moderno per i colloqui che si applica a Catania: è rispettoso della persona e della loro famiglia. Proprio la direzione che vogliamo seguire perché il carcere non sia solo repressivo come una volta» sostiene il sottosegretario Maria Elisabetta Casellati.
Qualcosa di buono, insomma, al carcere di Catania c’è: l’organizzazione. Le mancanze, come spesso la cronaca racconta, sono strutturali e la responsabilità non è di chi gestisce il carcere ma di chi lo finanzia o dovrebbe finanziarlo, cioè le istituzioni. Il problema è annoso e diffuso in tutto il Paese e una soluzione non è ancora stata trovata. Mentre il parlamento si occupa di altro. Occorre aspettare. Quanto, è davvero difficile da sapere.