Si danno il cambio commissari e luogotenenti: a turno tutti spiegano perché furono scartate le altre piste investigative, prediligendo quella sostenuta oggi dall’accusa della spedizione punitiva verso l’avvocatu sbirru. Ma non risultano contatti fra il pentito che ha dato uno scossone al caso e alcuni degli imputati a processo
Omicidio Fragalà, sentiti i testi che indagarono «Chiarello all’epoca non era oggetto d’interesse»
«Il primo movente ipotizzato, quello passionale, è stato abbandonato perché ritenuto insussistente, non è emerso nessun riscontro oggettivo. Abbiamo scavato a fondo nell’attività professionale dell’avvocato Fragalà, ma non è emerso nulla». Questo quanto raccontato oggi in aula dal luogotenente Alessandro Pelosi davanti alla prima sezione della corte d’assise, dove si celebra il processo sull’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. «Nessun riscontro neppure alle dichiarazioni di alcuni suoi ex clienti», secondo il teste, che conferma che all’epoca delle indagini furono vagliate più piste, non solo quella sostenuta oggi dall’accusa.
E molto gira attorno alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Chiarello, che ha fortemente contribuito alla ricostruzione di quanto accaduto la sera del 23 febbraio 2010 e fatto i nomi dei sei uomini oggi sotto processo. «Chiarello ha avuto un periodo di co-detenzione con alcuni degli imputati coinvolti», dichiara ancora, riferendosi ad Antonino Abbate e Salvatore Ingrassia. Ma non mancano i «non ricordo» e i «non lo so» nella testimonianza del luogotenente rispetto alla figura del pentito. «Non avevamo il traffico telefonico di Chiarello, non potevamo quindi verificare le sue dichiarazioni riguardo alle presunte riunioni a cui partecipava a Borgo Vecchio in prima persona con affiliati a Cosa nostra – spiega -. Ricordo dalle intercettazioni che c’era preoccupazione per quello che lui avrebbe potuto dire, una volta arrestato». Ma in quanto a contatti fra Chiarello e Antonino Abbate e Francesco Arcuri, entrambi imputati, c’è poco da dire: «Non ne risultano».
Sulla stessa falsariga le testimonianze di chi lo ha preceduto oggi. Tra questi, Antonino Fernandez, all’epoca dell’aggressione in servizio alla Mobile di Palermo nella sezione catturandi: «La nostra indagine era solo finalizzata alla cattura di Gianni Nicchi – arrestato nel 2009 per associazione mafiosa dopo una latitanza di tre anni -, non puntava alle famiglie mafiose nello specifico. È in questo tipo di contesto che abbiamo identificato Arcuri e Abbate». Nei confronti dei quali, infatti, scattano le operazioni di intercettazione e monitoraggio. Ma ancora una volta, nominando Chiarello, non salta fuori nulla di utile: «Non sapevo nemmeno chi fosse all’epoca, ho saputo qualcosa solo leggendo le notizie di stampa. Mai lavorato su di lui, non ci siamo mai imbattuti nella sua figura», spiega il teste, che all’epoca dirigeva la squadra che indagò sull’omicidio del penalista. Non risulta, dalle parole di tutti i testimoni sentiti oggi, alcun tipo di contatto telefonico o fisico fra il collaboratore di giustizia e i due uomini oggi sotto processo insieme ad altri quattro: «Chiarello all’epoca non era persona di interesse», spiegano tutti.