Uno degli ultimi blitz conto i presunti uomini di Cosa nostra risale a novembre e ha colpito al cuore Borgo Vecchio, dove sono finite in manette 17 persone. A fare la differenza è stata soprattutto la collaborazione di alcuni commercianti. A distanza di un mese, però, la situazione nel quartiere non sembra troppo cambiata
Pizzo: chi finge di non sapere e chi prova a denunciare «Li arrestano, ma il giorno dopo ne arrivano altri dieci»
«Richieste? No. Non è mai venuto nessuno qui con delle richieste». Lo dice sorridendo, ma il suo viso tradisce un po’ di nervosismo. Forse non vuole dare a vedere quello che sta pensando realmente, anche se la scelta cauta di quella parola, richieste, lascia capire molto più di quello che il commerciante non intenda rivelare. Arrivato a Palermo dal Bangladesh dieci anni fa, ha aperto insieme al fratello un minuscolo negozietto di alimentari a due passi dal salotto buono della città. Anzi, in una delle zone tra le più caratteristiche del centro storico e meta serale ambita di numerosi giovani: Borgo Vecchio. Della via Archimede conosce ormai ogni volto, ogni routine ormai da quasi cinque anni, da quando ha aperto la sua attività. Accoglie i clienti con un grande sorriso e con un italiano che, malgrado la lunga permanenza, sembra ancora un po’ incerto. A chiedergli di pizzo e mafia, però, capisce al volo. E la reazione è inequivocabile: distacco e negazione.
«A me non mi ha disturbato mai nessuno – ribadisce -. Ogni tanto qualche bambino, cose così, niente di grave. Non c’è niente per ora qua». Qualcosa, però, c’è stato. Ed è quello che, in parte, ha contribuito agli arresti messi a segno il mese scorso e che puntavano a fermare il presunto clan mafioso del quartiere. Uomini che, secondo il quadro investigativo emerso, avrebbero messo le mani sulle casse di numerosi negozi di quella via. Compreso il piccolo negozio di alimentari del commerciante che adesso se ne sta sorridente dietro al suo bancone, mentre i clienti si muovono tra stretti corridoi di spezie e snack a buon mercato. «Ma lei cosa vuole sapere? Io davvero non so nulla di quello che pensa lei», insiste, riuscendo ancora a sorridere. A lui però gli inquirenti arrivano lo stesso. A lui, al suo nome e al suo negozio. Sono tutti segnati su quei pizzini ritrovati nel covo dei Tantillo e nelle pagine del libro mastro, quello usato per annotare la cifra dovuta alle casse della famiglia da parte dei commercianti della zona.
La storia di questo commerciante ai magistrati è stata ben diversa. Una storia fatta di paura, isolamento e decisioni sbagliate. Una storia che davanti a un registratore proprio non se la sente di raccontare, arrivando persino a negarla del tutto. Solo pochi metri più avanti, invece, in direzione via Libertà un suo connazionale non la pensa allo stesso modo e delle sue ripetute denunce parla quasi con fierezza.«L’ultima risale ad agosto – dice il cinquantenne, anche lui del Bangladesh -. Hanno fatto irruzione nel negozio, rubando e distruggendo tutto. Pochi giorni prima avevo visto cinque persone continuare a camminare da queste parti, guardavano con insistenza. Ormai penso che mi abbiano preso di mira». È convinto, il commerciante, di scontare il fatto di aver collaborato con gli inquirenti e di aver indicato chi in passato era entrato nella sua piccola attività pretendendo del denaro. «Io li conosco in faccia, quando li vedi li riconosci subito, vanno in giro vestiti bene, con abiti di marca. Se parli con loro ti dicono che è tutto normale, che stare in giro per strada a chiedere i soldi degli altri è un mestiere, il loro. Li ho denunciati, più volte – dice -. Qualcuno poi lo hanno anche arrestato, ma ne togli uno e ne spuntano altri dieci il giorno dopo».
La paura c’è, ma legata a doppio filo alla rassegnazione. Tornare nel paese di origine per lui è fuori discussione, così come cambiare semplicemente zona e spostare la sua attività in un altro quartiere di Palermo: «Dove dovrei andare? Puoi cambiare zona, ma non situazione: trovi nomi e volti diversi, ma niente di più». «È come un fungo», gli fa eco un cliente abituale del negozio, «e l’antimafia, alla fine dei conti, non è che un’altra mafia, perché lui – continua il cliente riferendosi al commerciante – è rimasto da solo. Eppure non è tutto da buttare qui, ma se la prendono con i più deboli, specie se stranieri, per isolarli meglio. Non è che però a Palermo tutta la gente fa schifo». «Però non è qualcosa che si può fermare», torna a dire il commerciante, scoraggiato. Da tre mesi ha installato le telecamere a guardia del negozio, ma vorrebbe un pattugliamento costante da parte degli agenti. «Non si vede mai nessuno qui in giro a investigare, a guardare».
In molti, lì in zona a Borgo Vecchio, conoscono la storia di questo coraggioso commerciante. Che malgrado le ripetute intimidazioni, alla fine ha deciso di collaborare per denunciare i suoi aguzzini. E sul volto dei clienti più affezionati del suo negozio si legge ammirazione. Non tutti, però, avrebbero fatto le stesse scelte. «Al suo posto io non avrei denunciato niente e nessuno – dice un anziano pensionato -. Non avrebbe senso, se poi lo Stato non è dalla tua parte e ti lascia solo. Tornassi indietro e decidessi di aprire una putia, penso proprio che me ne andrei fuori».