Cuore di ghiaccio

Giuseppe Scuderi è un giovane laureto in psicologia, abilitato Sissis per la classe filosofia e psicologia, che lavora in una cooperativa sociale come educatore. Collabora con il Tribunale per i Minori ad un progetto finalizzato all’accompagnamento educativo di minori inseriti nel circuito penale. Infine, insegna psicologia in un istituto paritario. Durante gli studi di abilitazione ha scoperto una vena narrativa che, nel 2009, è sfociata nel suo primo romanzo, “Sopravvissuti a una notte di ghiaccio”, vincitore del premio Gesualdo Bufalino e finalista del premio Carver.

Giuseppe, “Sopravvissuti a una notte di ghiaccio” è il titolo del tuo primo romanzo. Fin dalle prime pagine il freddo diventa il simbolo della sofferenza, della paura. Cosa rappresenta per te?
«Il ghiaccio, il freddo sono delle immagini da cui sono voluto partire. Sono dei blocchi emotivi da sciogliere per potersi approcciare alla vita. Sopravvissuti è come se fosse un punto di partenza. Perché, chi è sopravvissuto a qualcosa deve porsi delle domande. Se sopravvivi a un dolore, ad una disgrazia a qual punto non dai più la tua vita per scontata ma ti poni delle domande. Queste ti servono per trovare delle spiegazioni, per dare un senso a quello che fai. Da lì parte tutta la storia, la voglia del protagonista di raccontare la sua storia per cercare un senso alla sua esistenza. Egli fa un percorso dal ghiaccio al calore attraverso la scrittura, che serve non soltanto a sciogliere il suo blocco emotivo ma anche a dare risposta alle domande che si è posto».

Il libro è composto da quattro capitoli, più o meno lunghi. Ognuno di essi è caratterizzato da scelte specifiche, come quella di alternare la narrazione in prima persona con quella in terza persona. La tua è una scelta voluta?
«Sì, è voluta. Innanzitutto perché mi piaceva sperimentare e volevo che il lettore, di capitolo in capitolo, cambiasse completamente universo di riferimento. Ma soprattutto, mi interessava con questa alternanza, mettere in evidenza diversi punti di vista, cambiare la prospettiva attraverso cui la storia è raccontata. Se la parte centrale, quella più corposa, è in prima persona perché il protagonista racconta la sua storia, l’epilogo è in terza persona per spostare il punto di vista un po’ più in alto. Il personaggio vede le cose in maniera leggermente diversa, le vede dall’alto. Capisce che si era fatto un’idea della sua vita sbagliata, quantomeno diversa dalla realtà. Inoltre, questo cambiamento serve a rendere evidente il distacco del protagonista dalla sua storia. Dopo averla raccontata e messa per iscritto, se ne libera completamente, smettendo di scrivere».

Il terzo capitolo è la sezione centrale del romanzo, racconto di una lunga storia ambientata anche nel futuro. Quanto c’è del vero Giuseppe Scuderi tra quelle righe, quanto di quello che potresti diventare?
«Quelle pagine le ho scritte mentre frequentavo la Sissis. In quel periodo c’era il governo Prodi e con Fioroni al Ministero della Pubblica Istruzione si respirava davvero la possibilità concreta di poter fare l’insegnante. Quello che racconto non è però un futuro sociale del protagonista quanto quello dei sentimenti, delle emozioni. Personaggio e autore sono partiti dallo stesso punto, non a caso la prima parte è un episodio autobiografico romanzato. Però con il trascorrere delle pagine prendono strada diverse, per questo la mia intenzione è stata sempre quella di distinguere le due figure nel corso delle storia».

Uno dei temi più presenti tra le pagine del romanzo è quello religioso. Qual è il tuo rapporto con la religione e quanto pensi possa essere utile nel tuo lavoro di educatore?
«Io lavoro in una cooperativa laica, oppositiva rispetto alle forme di assistenza legata al cattolicesimo. È innegabile però che, avendo fatto per 18 anni scuole cattoliche, la presenza di un’entità superiore accanto a me è costante, sebbene con dei normali alti e bassi. Nonostante questo, a titolo personale, non credo la religione possa essere utile nel mio lavoro, sebbene per molti aspetti sia tentato nel sostenere il contrario».

Altro elemento cardine è il rapporto stretto dei personaggi con la filosofia. Quanto hanno inciso gli studi filosofici nelle tue scelte di vita?
«Io in realtà non ho fatto degli studi prettamente filosofici, mi sono concentrato nella psicologia. Nonostante ciò, ho sempre avuto nei suoi confronti una grandissima attenzione. È un punto di riferimento costante per me e per la psicologia, che insegno e con cui lavoro. Nella storia che racconto è diventata un aspetto fondamentale perché il protagonista compie un viaggio introspettivo su di sé. Era imprescindibile. Inoltre, la considero come una fonte di ispirazione. Probabilmente, se non avessi letto ‘Aut Aut’ di Kierkegaard, la storia non l’avrei raccontata in questo modo».

Una figura che ha attirato la mia attenzione è quella della ‘vecchina’, prima figura malefica poi simbolo di resistenza contro la cementificazione e la deturpazione di piazza Castello, la tradizione contro il progresso. Puoi spiegare questa ambivalenza?
«Sì, è vero, ci sono due diverse ‘vecchine’ all’interno del romanzo. La prima è un po’ l’incubo del bambino e rappresenta forse la paura della morte. La seconda, che resiste alla vendita della casa, è una figura molto letteraria e rappresenta un mondo con determinati valori. La sua descrizione è molto semplice, è una donna attaccata alle sue emozioni, ai suoi ricordi, ai suoi luoghi. Non a caso l’ho chiamata la ‘vecchina disneiana’».

Il Castello Normanno, il cimitero inglese nei presi dell’aeroporto, sono solo alcuni dei luoghi della città che racconti. Qual è il tuo rapporto con Catania?

«È difficile spiegare il mio rapporto con la città perché nel tempo, rispetto al periodo in cui ho scritto il romanzo, è cambiato. Adesso, con il mio lavoro, passo la maggior parte del mio tempo nei quartieri popolari come San Cristoforo o Librino, pertanto conosco molti più luoghi rispetto al passato. Il Castello Normanno, e altri luoghi, sono stati per me come una seconda casa, luoghi nei quali passavo molte delle mie giornate, pieno di ricordi legati a mio padre, alla mia famiglia. Ma sono stati anche dei luoghi di riflessione, di presa di coscienza. Salire i gradini del castello significava guardare la mia vita dall’alto. Ora ho un approccio molto più complesso con Catania, perché vivo la città nel suo cuore, con un rapporto quasi di amore e odio».

Uno dei luoghi richiamato dal libro, anche se non espressamente citato, è l’Experia. Noi di Step1 abbiamo dedicato parecchi articoli alla vicenda. Qual è il tuo parare da educatore, soprattutto riguardo la chiusura di un centro che assisteva i bambini del quartiere?
«Io l’ho vissuto in maniera indiretta, perché molti dei miei colleghi della cooperativa erano e sono militanti del centro. Ovviamente, da un punto di vista professionale, sono rimasto basito, perché era un luogo fondamentale per il quartiere. Proprio oggi ho partecipato, al Palazzo della Cultura, ad una riunione in cui vengono presentati tutti i progetti sociali della città nei confronti dei bambini. Questi progetti sono certamente delle esperienze più professionali e hanno degli approcci più scientifici, che partono dall’alto, ma senza esperienze come l’Experia, più legate al territorio, non possono bastare ad un appropriato sviluppo educativo dei minori».


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