Rosario Crocetta, ex sindaco di Gela simbolo della lotta antimafia, anche quest'anno non ha voluto mancare alla marcia in memoria di Peppino Impastato. Un redattore di Step1, lungo il cammino verso Cinisi, lo ha intervistato per voi
Crocetta: «Contro la mafia, io non basto»
«Ringrazio Dio per ogni giorno di vita che mi regala. La mia vita, da quando ho iniziato a fare il sindaco di Gela, è sempre stata in pericolo». Questa frase Rosario Crocetta, ex sindaco di Gela, attualmente parlamentare europeo, la pronunciò non molto tempo fa. Sono parole simili a quelle di altre persone che come lui hanno scelto di lottare apertamente contro la mafia. Questo non gli ha impedito di essere a Cinisi il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato. Grazie alla concessione della scorta, al suo fianco dall’attentato sventato l’8 dicembre 2003 durante la processione dell’Immacolata, possiamo rivolgergli qualche domanda.
Anche quest’anno, non è voluto essere assente alla manifestazione…
«Come ogni anno. Quest’anno ho provato una bellissima emozione quando, insieme a Giovanni Impastato, Peppe Lumia e il sindaco di Cinisi, siamo entrati nella casa che era di Badalamenti. Sinceramente è stata una forte emozione affacciarsi da quel balcone, perché ho notato che dominava tutto il corso, dal mare fino alla piazza. Praticamente si poteva controllare tutto il paese. È stato bello osservare le facce delle persone, sotto il balcone, che vedevano quel nostro gesto come un atto di liberazione. Dalla casa di Don Tano non si affacciava più la mafia ma l’antimafia. Solo che là dentro, dopo aver calpestato quei marmi così kitsch, come sanno essere solo i mafiosi, vi ho respirato il tanfo della mafia, degli orrori che si erano consumati. Però ho capito che la vita di Peppino non è stata bruciata, che la sua morte non è stato un atto inutile, ma invece è stato un messaggio di grande libertà che ancora oggi i giovani seguono molto e che trova ogni anno sempre maggiore interesse».
Ha specificato che non è la prima volta che presenzia a questa marcia. Nota delle differenze con gli anni passati?
«Sì. Nei primi anni mi impressionava l’assenza di cittadini del territorio, dell’hinterland, mentre negli ultimi due anni questa tendenza è stata invertita. Questo è il segnale che l’azione di Peppino comincia a dare i suoi frutti».
Ha citato la casa di Badalamenti e il tanfo della mafia che piano piano potrà uscire. Quello di confiscare i beni è uno strumento straordinario, sia perché si indeboliscono le famiglie mafiose, sia perché è simbolico togliere qualcosa alla mafia per restituirlo ai cittadini. Lei cosa ne pensa?
«Io credo sia un atto di giustizia, perché la lotta di Peppino è innanzitutto una lotta per la giustizia, perché la lotta contro la mafia è per la giustizia. Noi dobbiamo pensare che quel bene, quella casa, era il risultato di attività illecite, era quindi un bene sottratto ai cittadini. Quel luogo diventerà una biblioteca comunale, dove i ragazzi di Cinisi potranno leggere, potranno studiare. Questo è ciò che deve essere fatto con i beni della mafia, è assurdo che in questo Paese recentemente sia stata fatta una legge che permette ai mafiosi di vendere i propri beni. Anche perché, in questo modo, possono riprendere possesso degli stessi».
Come giudica la presenza oggi di tanti giovani, molti dei quali non erano nemmeno nati quando vennero uccisi Falcone e Borsellino?
«Qui il messaggio antimafia si carica di un messaggio molto più forte, coinvolgente. L’idea che sia stato ammazzato uno di loro. Peppino era un ragazzo come tanti, che gestiva una radio libera dalla quale accusa i mafiosi per le loro malefatte. C’è quindi un elemento di forte identificazione, Peppino era allora quello che sono adesso questi ragazzi. Inoltre, trasmetteva un altro messaggio, che non è necessario per lottare contro la mafia essere un poliziotto, essere un magistrato, o occupare alta cariche dello Stato. Si può essere anche dei semplici cittadini».
A Gela, si sente ancora il tanfo della mafia?
«Purtroppo non è facile eliminare il tanfo della mafia, perché è il frutto di decenni di malgoverno e malapolitica, decenni di corruzione e complicità. Decenni in cui le famiglie hanno ricevuto una disattenta inosservanza. È impensabile che basti un’esperienza come la mia o le denunce delle associazioni antiracket per eliminare il problema. Io credo che in tutta la Sicilia ci sia un lungo cammino da fare. Le mafie si stanno espandendo, in questi ultimi anni, diventano sempre più capillari, sempre più globali».
L’impoverimento culturale è un fattore favorevole a questo fenomeno di espansione delle mafie?
«Sì, perché sta avvenendo sul terreno dei valori. Se si perde di vista l’etica è chiaro che la mafia diventa più forte. Questa mancanza è alla base della corruzione che fa del nostro Stato il paese più corrotto al mondo. In tutto questo la politica ha una grossa responsabilità».