L'udienza ripercorre i punti chiave della vicenda, dalla telefonate sulle due utenze in uso ai trafficanti alla foto da subito attribuita al presunto boss, per finire alle ricerche condotte sui social. L'ispettore della squadra mobile però conferma che sulle intercettazioni delle chiamate non è stata svolta nessuna perizia tecnica in sede di indagine
Caso Mered, controesame del teste Mauro «L’identificazione vocale? Fatta a orecchio»
«Il consulente che ha riconosciuto la voce di Medhanie ha usato qualche strumento particolare o è andato a orecchio?» «A orecchio». Risponde secco, quasi con candore l’ispettore della mobile Giuseppe Mauro, seduto oggi per l’ultima volta al banco dei testimoni della quarta sezione penale, dove da mesi si celebra il processo contro il presunto boss del traffico di migranti, Medhanie Yehdego Mered. A fare le domande è l’avvocato Michele Calantropo, difensore del ragazzo detenuto al Pagliarelli e che ha sempre affermato di essere vittima di uno scambio di persona e di essere in realtà Medhanie Tesfamariam Berhe, un giovane in procinto di iniziare il viaggio verso la Libia e poi verso l’Europa. «Essendo una lingua straniera non avevamo modo di sapere chi parlasse», aggiunge.
Il controesame ripercorre i punti chiave della vicenda: dalle telefonate intercettate sulle due utenze in uso ai trafficanti alla foto da subito attribuita al presunto boss. «Ascoltando le telefonate di Medhanie ci siamo accorti che spesso parlava di una donna a cui era legato, Lidya Tesfu – dice l’ispettore Mauro – Ha anche fornito la sua utenza svedese». Da qui partono le ricerche a mezzo Facebook da parte degli investigatori, che rintracciano il profilo social della donna: «Guardando la lista dei contatti amici ci siamo accorti che c’era il profilo di un tale Meda Yehdego. Da qui – continua – abbiamo cominciato a cercare e a reperire foto del soggetto che in quel momento ritenevamo essere il trafficante Mered da quel profilo trovato grazie alla donna». La foto viene immediatamente diffusa dalla stampa. Quell’immagine, però, nel profilo Facebook del ragazzo attualmente sotto processo non c’è.
«Avete mai fatto ricerche sull’esistenza di Medhanie Tesfamariam Berhe in Eritrea?» «No», è di nuovo la risposta secca dell’ispettore. E rimane la stessa anche quando l’avvocato Calantropo domanda se nelle 18mila intercettazioni usate per le indagini abbia mai sentito il nome Berhe, o un qualche riferimento al figlio di Berhe o ai parenti di Berhe. Sparita la sicurezza e anche il ritmo quasi meccanico del botta e risposta che aveva contraddistinto la deposizione dello stesso teste, incalzato però dal pm Geri Ferrara. È proprio il magistrato che, finito il controesame, prende la parola. Subito induce il teste a distinguere fra impulsi ricevuti dai telefoni sotto controllo e le intercettazioni vere e proprie. Continua facendo precisare all’ispettore Mauro che spesso i trafficanti si riferivano a Medhanie usando semplicemente il nome «Meda», lo stesso insomma che figura nel profilo Facebook del ragazzo detenuto, Meda Medhanie, oltre che in quelli attribuiti con certezza al trafficante. Nonostante ciò, tuttavia, Medhanie in Eritrea è uno dei nomi più diffusi e significa Salvatore, mentre Meda è il suo abbreviativo più comune, un po’ come in Sicilia è usato Totò. Da registrare anche l’accelerata proposta dal giudice, che per la prossima udienza di fine maggio ha richiesto che vengano sentiti tutti i teste restanti nella lista del pm, consulenti inclusi.