Missionari da tutto il mondo tra i migranti  «Qui da 20 anni ma non parlano l’italiano»

Vivian era una giovane ghanese, una delle tante che ha affrontato il cosiddetto viaggio della speranza lungo il Mediterraneo. Sul barcone diretto a Pozzallo, al suo fianco, c’era Joseph, il marito. In realtà erano in tre, perché Vivian portava in grembo Kwaku, il bimbo che ha dato alla luce tre giorni prima di morire. Oggi Joseph e Kwaku non sono soli, perché possono contare sul sostegno di numerosi volontari e su quello dei missionari

«Quella di Vivian purtroppo non è una vicenda isolata – racconta a MeridioNews don Gianni Treglia -. Sono situazioni abbastanza comuni, perché quando i migranti arrivano da noi si ritrovano soli e abbandonati: alle spalle non hanno né una rete familiare né altri contatti. Il nostro obiettivo – continua – è quello di creare una rete sociale attorno a queste persone. Nel caso di Joseph, per esempio, trovargli degli amici che possano tenergli compagnia in questi momenti di grande difficoltà».

Don Gianni è un missionario della Consolata, salentino di nascita, 16 anni trascorsi in Africa. A novembre 2015 la decisione di stabilirsi in Sicilia insieme a suor Giovanna Minardi, missionaria dell’Immacolata. Dal 2013 avevano in cantiere la formazione di una comunità missionaria che inizialmente doveva nascere a Lampedusa, ma che poi è stata fissata a Modica. Così ha preso vita così – grazie anche all’interesse della diocesi di Noto – la prima comunità missionaria intercongregazionale mista, della quale oggi fanno parte anche padre Vittorio Bonfanti, missionario d’Africa, e suor Raquel Soria, missionaria della Consolata. Il gruppo è accompagnato dalla Caritas diocesana, da Migrantes e dal Centro diocesano missionario

Il compito dei quattro è quello di facilitare l’incontro tra le diverse culture e «parlare la lingua dei migranti», sfruttando le esperienze acquisite in diversi continenti. Padre Vittorio ha vissuto in Mali, nell’Africa Occidentale: «Lì i musulmani sono l’85 per cento, i cristiani appena il due». La lingua imparata sul posto rappresenta un «ponte» con chi, arrivato in Sicilia, non riesce a comunicare. «Sono andato in una comunità che accoglie migranti – ricorda don Vittorio -. C’era una donna che se ne stava sempre seduta, in silenzio, testa bassa. Quando sono arrivato ho parlato la sua lingua, lei si è alzata, mi ha sorriso: è stato come se riprendesse a vivere».

Suor Giovanna, invece, ha passato gran parte della sua vita in Asia: 21 anni a Hong Kong e quattro in Cina. A Modica tiene dei corsi d’italiano per migranti: «Ci siamo accorti – dice – che ci sono diverse persone che vivono qui anche da vent’anni, ma che non parlano una parola d’italiano. La scuola diventa un’occasione importante per poter comunicare e confrontarsi. Al mattino quando vado a messa – continua – tanti bambini mi corrono incontro e mi abbracciano. E cresce il numero di chi vuole seguire i corsi, tanto che li stiamo attivando anche in un’altra zona della città».

Dal canto suo, suor Raquel ha trascorso tanti anni in Kenya, al fianco di bambini e adolescenti sfruttati e dei carcerati abbandonati. «Nella mia esperienza ho visto come i carcerati di origine straniera vivano una condizione di doppio svantaggio – dichiara -. C’è uno scarso intervento di mediazione culturale. Nei penitenziari italiani ci sono solo 28 mediatori in tutto, e le carceri sono circa duecento. Ecco perché – conclude – voglio andare lì, per fare attività con loro, per portare la mia testimonianza».

Il segreto dei quattro missionari è racchiuso nella «potenza dell’amore», come testimonia padre Gianni: «Una volta sono andato in ospedale. C’era un ragazzo ricoverato da più di due mesi, come nome era stato riportato ignoto e un numero – ricorda -. Sono entrato in stanza, pochi minuti dopo sono uscito e ho dato al personale dell’ospedale il nome e alcuni dati del ragazzo. Non ho parlato nessuna lingua. Gli ho detto come mi chiamavo, gli ho sorriso e ho parlato con lui». 

Il sogno del sacerdote è quello di realizzare un centro giovanile per minori a Pozzallo: «Spesso arrivano dei ragazzi, molti dei quali senza genitori – spiega -. Dovrebbero rimanere nell’hotspot pochi giorni, ma spesso restano anche per molto di più. E allora ci vuole un luogo dove possano giocare e imparare un po’ di italiano. Soprattutto un posto dove possano confrontarsi con i ragazzi di Pozzallo».

La relazione coi migranti è il punto forte della missione. «Capiscono subito chi li aiuta e perché lo fa – sottolinea don Gianni -. In Sicilia c’è una grande predisposizione all’accoglienza a differenza di altri territori italiani. La gente del posto non respinge i migranti, nonostante le piccole paure legate agli sbarchi, quasi sempre dettate dalla non conoscenza».


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