È uno degli ultimi testimoni siciliani della prigionia. Deportato a 20 anni, ha vissuto in prima persona gli orrori dei lager. «Lavoravo in miniera, mangiavo bucce di patate e il freddo era insopportabile». Ora, dalla provincia di Caltanissetta dove vive, si dichiara preoccupato per i nuovi scenari internazionali
Calogero Giardina, da Mussomeli ai campi nazisti A 97 anni esorta i giovani: «Mai abbassare la guardia»
Sono passati 71 anni dal 25 aprile 1945, ma nella memoria di Calogero Giardina, classe 1920, i ricordi sono ancora vividi. Internato nei campi di concentramento in Germania, è uno degli ultimi sopravvissuti della deportazione nazista che, ancora oggi, ha la forza di raccontare. Mostra documenti, fotografe, medaglie, oggetti, gelosamente custoditi, indelebili tracce del passato.
Partito da Mussomeli, poco più che 18enne, il giovane lascia per la prima volta la sua terra con la speranza di tornare quanto prima. «Era l’1 gennaio il 1941, – racconta – quando venni chiamato a prestare servizio militare a Forlì». Attivo sul fronte greco dove viene mandato a «combattere contro i ribelli», viene fatto prigioniero dai tedeschi durante i tragici eventi che seguirono l’armistizio del 43. «Lo ricordo ancora – dice – era il 9 settembre. Ci disarmarono e ammassarono su un treno merci, in partenza per la Germania. All’arrivo a ognuno di noi venne assegnato un numero che ci segnò a vita e per tutta la nostra permanenza in quell’inferno».
Come tanti altri commilitoni, prigionieri di guerra, finisce ai lavori forzati. Per due anni è soggetto ad ogni forma di fatica e sfruttamento. «Ci mandarono a lavorare in una miniera di carbone a cento metri di profondità – racconta -. Lavoravamo senza sosta, dall’alba fino a sera, in condizioni disumane. Ci veniva offerta una misera porzione di pane e un minestrone di barbabietole». Ma la fame è troppa, il rancio insufficiente. È questo uno dei motivi, che lo spinge con alcuni compagni a procurarsi clandestinamente il cibo. «Riuscivamo a placare i morsi della fame con i resti di bucce di patate, trovati in mezzo ai rifiuti».
Ogni sera vengono scortati da un gruppo di soldati, «armati di fucili sempre pronti a sparare senza esitazione», dentro baracche all’interno dei campi di concentramento. «Dormivamo sopra letti a castello, rannicchiati l’uno accanto all’altro perché il freddo era insopportabile». Ha notizia di quanto avveniva ai forni crematori e nelle camere a gas da alcuni compagni di baracca. Giardina è uno dei pochi fortunati riuscito a scampare alla morte e resistere fino all’arrivo degli Alleati.
Per due anni la sua famiglia non ha più sue notizie. È convinta che non avrebbe mai più fatto ritorno. E invece, il 21 ottobre del 1945, dopo parecchi chilometri a piedi, Calogero rientra. Affaticato e smagrito, «pesavo 45 chili», i suoi cari stentano a riconoscerlo ma sono felici di poterlo riabbracciare. «Ero sfinito fisicamente e distrutto psicologicamente». Ferite dell’anima che Calogero porta dentro. Oggi dalla sua casa di Mussomeli, dove viva ancora, si dichiara «preoccupato per i nuovi scenari internazionali» ed esorta i giovani «a fare tesoro dei racconti dei sopravvissuti per ricordare la storia e non abbassare mai la guardia».