Referendum, a 92 anni partigiana in prima linea per il No  «C’ero per la Costituzione e non fu disegno di una parte»

Per parlare di donne e referendum costituzionale è arrivata ieri a Catania Lidia Menapace. Partigiana classe 1924, tra le voci più importanti del femminismo italiano. Ha un passato da giovane staffetta della Resistenza per il Comitato Nazionale di Liberazione di Novara, e la Costituzione italiana l’ha vista scrivere. Ha rifiutato il grado di sottotenente che hanno tentato di attribuirle dopo la guerra di liberazione, ed è stata attivamente pacifista, proponendo nel 2001 la Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. Eletta al Senato nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista, oggi si definisce «una vecchia professoressa in pensione», la prima a mettere l’accento sull’importanza del linguaggio «sessuato» come strumento fondamentale contro il sessismo. All’incontro, promosso dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale di Catania, è tra le portavoce di Partigiane per il No.

Perché la necessità di un fronte femminile per il No al referendum costituzionale? La battaglia sulla riforma è una scelta politica che può avere una connotazione di genere?
«Una compagine femminile all’interno del fronte per il No è necessaria. Questa revisione della Costituzione (non parlerei di riforma), offre un impianto centralistico del potere, attraverso la redistribuzione delle competenze tra Stato e regioni. Per le donne, invece, è importante che il potere politico sia diffuso e capillare perché solo così può essere accessibile a tutti. Una donna vede ridotte le sue possibilità di accesso alla politica se è lontana dal centro del potere».

L’incontro di questa sera è, nelle intenzioni degli organizzatori, un’occasione per dare una risposta al recente intervento della ministra Maria Elena Boschi che non ha riconosciuto l’esistenza di Donne per il No. Cosa risponde alla ministra Boschi?
«Ho già dato una risposta alla ministra Boschi. Sono una vecchia prof in pensione e le ho detto: ragazza, studia un po’ di storia che non ti farà male».

L’obiettivo del confronto è anche quello di contestualizzare l’evento referendario nell’attuale momento storico nazionale e internazionale, fuori dalle specifiche questioni giuridiche.
«A livello nazionale posso ribadire che questa non è una buona riforma. Io c’ero quando la Costituzione è stata scritta e a quel tempo il dibattito fu molto diffuso. In questo caso invece, il processo di riforma non è condiviso, è frettoloso ed è il disegno di una sola parte politica».

A proposito di donne e potere, probabilmente Hillary Clinton non ha perso la corsa alla presidenza degli Stati Uniti perché donna. Ma la vittoria del suo avversario ha tradito un sogno di emancipazione che da personale è diventato globale. Non siamo pronti ad attribuire un ruolo così importante a una donna?
«Essere donna, per quanto emancipata, non basta. Quello che è importante è avere piena coscienza di sé come donne, non imitare gli uomini. Hillary Clinton si è comportata come un uomo, solo con più garbo e con più eleganza. Ma questo non basta per sconfiggere il patriarcato. Serve un femminismo trasparente, deciso e consapevole, non imitazioni».

Il fatto che sia prevalso un uomo che con il suo linguaggio ha dimostrato di avere bassa considerazione e rispetto del mondo femminile ci dice che la questione di genere soccombe di fronte ai temi del lavoro e della povertà?
«L’elezione di Trump è un’involuzione della politica internazionale. Per Trump hanno votato anche gli operai di sinistra, ma un operaio che non ha coscienza di classe è solo un dipendente. In Europa ci sono invece movimenti di lotta da parte dei lavoratori e la nostra coscienza di classe non è stata sepolta come negli Stati Uniti».

La Corte Costituzionale ha recentemente stabilito che i figli potranno portare il cognome della madre. Che cambiamento comporterà dal punto di vista sociale?
«È sicuramente una cosa positiva per chi vuole farlo, ma non è una rivoluzione. C’è ancora molto da fare».

È diffuso il tentativo di scrittrici e giornalisti di sessuare le parole e renderle al femminile anche quando nella lingua italiana non è previsto. Perché è una battaglia così cara alle femministe? Una rivoluzione semantica può diventare uno strumento utile contro il sessismo?
«È una lotta fondamentale. Il linguaggio deve essere inclusivo. Chi non è nominato non esiste, le parole sono simboli. Chi se ne importa se nella lingua italiana medica, avvocata e sindaca non esistono? Se non ci sono le inventiamo. La nostra è una lingua viva, è alle lingue morte che non si può aggiungere più nulla. Inventiamo tutti i femminili possibili, in modo che le donne non debbano tenere su la maschera da uomini».

Cosa resta ancora da fare?
«Oggi del movimento femminista resta poco. Le donne devono recuperare una piena coscienza di sé e del femminismo. È questa la priorità, tutto il resto verrà di conseguenza».


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