Non solo il pizzo, ma anche la richiesta di posti di lavoro e un tentativo di omicidio nato per questioni personali. Il tenente colonnello dei carabinieri: «Parlare con le autorità è un percorso più faticoso, ma il muro di omertà sta cedendo grazie alle primissime collaborazioni spontanee». Guarda le immagini
Corleone, il nipote di Provenzano e le estorsioni Carrozzo: «La mafia c’è ancora, ma si denuncia»
Dodici sono in tutto gli arresti messi a segno e che minano alle fondamenta i mandamenti dell’entroterra palermitano, da Corleone a Chiusa Sclafani e Palazzo Adriano, già colpiti dagli arresti di esponenti di spicco nel settembre 2014 e nel novembre 2015. Sono ritenuti, a vario titolo, responsabili di estorsione, tentata estorsione, associazione di tipo mafioso, danneggiamento. «Quest’indagine rappresenta la quarta tranche di un’operazione più vasta iniziata nel 2013», spiega a MeridioNews il tenente colonnello Mauro Carrozzo. «Tutto è nato dall’esigenza di monitorare Rosario Lo Bue, ritenuto capo mandamento di Corleone – continua Carrozzo – Da quest’indagine emerge chiaramente che la mafia c’è ma è in forte difficoltà, a causa di queste ultime operazioni, che dimostrano che siamo in grado di fotografare l’intero assetto dell’organizzazione». A coordinare l’operazione denominata Grande Passo 4 i sostituti procuratori Sergio Demontis, Caterina Malagoli, Gaspare Spedale e il procuratore aggiunto Leonardo Agueci.
«Negli ultimi anni abbiamo portato a termine dieci operazioni antimafia, significa che stiamo lavorando bene», prosegue Carrozzo, che lancia un messaggio importante: «Invito tutti i cittadini di Palermo e provincia a fare costante riferimento sulle autorità, ma anche su associazioni come Addiopizzo, fondamentale quando un imprenditore vessato vuole denunciare». Le estorsioni emerse dalle indagini dei carabinieri del nucleo investigativo e della compagnia di Corleone sono nove grazie alle denunce e alle dichiarazioni rese da alcuni imprenditori. Alla fine in quattro hanno deciso di denunciare apertamente le vessazioni subite. «Alcuni soggetti hanno denunciato di propria iniziativa, altri ancora hanno confermato e rilasciato delle dichiarazioni dopo gli interrogatori degli inquirenti. Ma non ci sentiamo di fare alcuna differenza – dice Carrozzo – Nelle zone dell’entroterra le maglie dell’organizzazione mafiosa sono più larghe e fra gli imprenditori c’è molto timore, denunciare è un percorso più faticoso, ma il muro di omertà sta cedendo grazie alle primissime collaborazioni spontanee».
Alcune delle frasi intercettate dalle autorità confermano il clima di paura: «Tutti devono tremare e ancora Dobbiamo bussare a ogni porta, dare una lezione a chi non si assoggetta», a testimonianza del fatto di come l’attività estorsiva resti la principale fonte di sostentamento delle cosche e non solo per il mantenimento delle famiglie dei detenuti, ma anche per gli stessi associati, sempre più colpiti dalle continue operazioni investigative che ne hanno minato i tentativi di riorganizzazione dei mandamenti.
Fra gli arrestati spicca il nome di Carmelo Gariffo, nipote del boss Bernando Provenzano, che avrebbe cercato di ottenere un lavoro come piastrellista. Oltre ad alcuni insospettabili come i forestali a contratto Vincenzo Coscino e Vito Biagio Filippello. Coinvolti nella stessa operazione, ma sottoposti alla misura della libertà vigilata per due anni, ci sono anche il coltivatore Gaspare Gebbia e il figlio Pietro, istigatori e mandanti dell’omicidio, sventato dalle autorità, di un bracciante agricolo di Chiusa Sclafani. Il progetto, per il quale erano già stati individuati i killer Pietro Paolo Masaracchia e Vincenzo Pillitteri e stabilito un compenso di 3mila euro, nasceva in realtà da questioni di natura privata, legate alla successione: «Questa è una prova della connivenza profonda con la mafia», conclude Carrozzo.