Strage di Capaci, il racconto del fotografo Vassallo «Ricordo ancora Falcone e l’odore di esplosivo»

Il 23 maggio 1992 sull’autostrada A29 alle 17.56 una spaventosa esplosione segna tragicamente la storia d’Italia. Nell’attentato perdono la vita Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Francesca Morvillo e il magistrato Giovanni Falcone muoiono poche ore dopo in ospedale. Uno dei primi ad arrivare sul posto è un fotografo di Capaci, il 25enne Antonio Vassallo, che con la sua macchina fotografica comincia a scattare diverse foto.

«Sono immagini che non dimenticherò mai – dice Vassallo – e soprattutto quella del giudice Falcone che dondolava la testa, io ci ho sempre letto un messaggio chiaro: “Maledetti mascalzoni finalmente ce l’avete fatta ad ammazzarmi”». Quella di Falcone era una macchina corazzata, ci vollero più di duemila chili di tritolo per la forte esplosione che le fece fare un volo di 200 metri. «Chi abita in questo golfo non ha pensato a una strage – racconta il fotografo – noi avevamo allora due cave: Italcementi e un’altra dall’altro lato del paese, pensavamo che, durante l’esplosione, nella cava qualcosa non fosse andato come previsto». Quel maledetto giorno volle guidare la macchina il giudice Falcone. Non viaggiando a 140 km orari, come faceva l’auto quando alla guida c’era l’autista Giuseppe Costanza, i piani degli attentatori vennero scombussolati, che decisero comunque di schiacciare il pulsante, «Furono fortunati, – continua Vassallo – beccarono l’auto in pieno. La Croma con a bordo il giudice si andò a schiantare a 90 km orari. Se avessero avuto le cinture di sicurezza probabilmente si sarebbero salvati, come si salvò l’autista che stava dietro».

Vassallo arrivò tra i primissimi sul posto: «Sembrava la scena di un film – ripercorre con la mente – nessuno pensava che la mafia riuscisse a creare un cratere enorme, coinvolgendo due corsie d’autostrada a due passi dalle case, da casa mia in questo caso. Sono arrivato quando ancora c’era un gran caos: gli alberi con le radici fuori dalla terra e l’odore di esplosivo nell’aria, le sirene che suonavano all’impazzata. Con la mia macchina ho cominciato a fare foto, ma dopo poco tempo mi sono state sequestrate da due poliziotti. Le ho date convinto che sarebbero servite per le indagini. Otto mesi dopo, però a Caltanissetta non c’erano». 

Da quel momento Antonio insieme ad altri ragazzi si impegna nella lotta contro la mafia e alcuni anni dopo, insieme ad Addiopizzo Travel, accompagna scolaresche, giovani e appassionati in uno dei luoghi della memoria, la casina No Mafia: «È un pellegrinaggio, e poi racconto la mia esperienza. La mafia avrebbe potuto uccidere Falcone a Roma, andava spesso a mangiare la pizza con la moglie senza scorta, ma Cosa nostra voleva fare qualcosa di clamoroso ed eclatante quel giorno che cambiò completamente la mia vita e quella di molti altri giovani».


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