Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore, i due vigili urbani accusati di istigazione al suicidio, sono stati prosciolti a fine marzo. Adesso l'avvocato dell'ambulante che si è dato fuoco nel 2014 annuncia di non voler chiudere la questione. «Si doveva arrivare al dibattimento», sostiene il legale Francesco Marchese
Caso La Fata, la famiglia fa ricorso in Cassazione La moglie: «Serve il processo per avere giustizia»
Bisognava arrivare a processo, perché nella fase preliminare manca il contraddittorio con i testimoni. È questa la tesi della famiglia di Salvatore La Fata, l’ambulante che si è dato fuoco in piazza Risorgimento il 19 settembre 2014, durante un controllo antiabusivismo della polizia municipale. Era morto per le troppe ustioni dopo undici giorni di agonia e i due vigili urbani in servizio, Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore, erano stati accusati dalla procura di Catania di istigazione al suicidio. La giudice Marina Rizza, però, aveva disposto il non luogo a procedere per i due indagati. Impedendo, di fatto, che si arrivasse alla fase del dibattimento in aula: il processo vero e proprio. Adesso contro questa decisione si muove l’avvocato della famiglia La Fata, Francesco Marchese, che conferma di aver depositato il ricorso in Cassazione.
«A mio avviso, per il caso che abbiamo in mano, non è tecnicamente corretto che non sia stato permesso un contraddittorio in sede dibattimentale», afferma Marchese. Punto centrale sarebbe l’impossibilità di avere un confronto con i testimoni della difesa. «Personale della Multiservizi e altri vigili urbani – dice l’avvocato – Tutte persone alle quali sarebbe stato interessante fare delle domande sul preciso svolgimento dei fatti, almeno da parte nostra». Motivo per il quale il legale ha chiesto l’intervento dei magistrati della Cassazione, che possono decidere di far fare al procedimento a carico dei due agenti della municipale un passo indietro.
«Un caso di questo genere non può essere chiuso in fase istruttoria. Tanto più che, di norma, capita molto raramente che accada», conclude. E gli fa eco Alfia Poli, moglie di Salvo La Fata, presente in aula nel corso di ognuna delle udienze preliminari. «Tra le cose che dicono i vigili e quelle che raccontano i nostri testimoni ci sono tante differenze – dice Poli – Cose che devono essere in un modo o in un altro, per questo vorrei che un processo chiarisse tutto una volta per tutte e facesse giustizia». Lei, affiancata dalla numerosa famiglia del marito, non vuole farsi da parte. «Spero che i giudici della Cassazione abbiano un orientamento diverso e vogliano leggere tutto per bene – sostiene – So che è difficile, perché è un caso che riguarda le istituzioni, ma non voglio che questa cosa si chiuda senza averle provate tutte».