Il giorno dell'Epifania 200 eritrei hanno manifestato contro l'identificazione, trovando riparo nella notte nella chiesa di don Mimmo. «A quest'isola non si può chiedere di più». Oggi la sindaca lancia un appello al ministero: «Serve una verifica urgente», mentre il collettivo Askavusa si sofferma sulle reazioni dei residenti
Lampedusa, la difficile convivenza con l’hotspot Nicolini: «Esperimento inefficace imposto da Ue»
«La chiesa era aperta, le luci accese e queste persone vengono spesso a pregare». A due giorni dalla nuova protesta dei migranti a Lampedusa, don Mimmo Zambito, il prete dell’isola, si schernisce quando gli si chiede dell’aiuto prestato alle decine di cittadini africani che la notte dell’Epifania sono stati accolti all’interno della chiesa, per proteggersi dal freddo e dalla pioggia. Un piccolo gesto che ha riportato l’attenzione sulla situazione degli hotspot, i centri di riconoscimento che sarebbero dovuti servire a snellire la gestione del fenomeno migratorio – favorendo il ricollocamento di chi ha diritto a essere accolto da uno degli stati dell’Unione europea – e che invece sono diventati simbolo di un sistema ancora poco capace di trovare soluzioni a un problema che ogni anno causa migliaia di vittime.
Protagonisti dell’ultima manifestazione sono stati circa duecento cittadini eritrei. Gli unici che, insieme a iracheni e siriani, possono ambire a trovare una sistemazione in una nazione diversa da quella di approdo, cioè l’Italia: «Ancor prima che per paura di rimanere nel nostro Paese – commenta don Mimmo -, queste persone si rifiutano di fornire le impronte digitali perché sono consapevoli di essere al centro di un sistema che è praticamente privo di cornice giuridica». Tali falle, però, a Lampedusa, cedono il passo davanti a urgenze ben più evidenti. Come il bisogno di intervenire in un luogo dove la richiesta di aiuto si accompagna spesso al rischio di morire: «A questa isola di venti chilometri quadrati non si può chiedere di più, se non di prestare soccorso per salvare donne, uomini e bambini che, indipendentemente dalla nazionalità, si mettono in mare confidando di arrivare in un paese che dice di tutelare i diritti fondamentali», aggiunge il parroco. E nell’attesa che le istituzioni riescano ad affrontare le questioni a monte, a chi vive il territorio non resta che fornire il proprio contributo: «È stata una protesta non violenta, fatta da persone come noi – sottolinea don Mimmo -. Fornire un bicchiere di tè caldo e un po’ di riso è un piccolo gesto, nulla di eroico. Pioveva e sono entrati volentieri in chiesa. La maggior parte è cristiana – conclude – ma anche un miscredente o un ateo avrebbe avuto bisogno di ripararsi».
Stamani, è stata la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini a intervenire sulle condizioni dell’hotspot: «L’isola è luogo di primo soccorso e non può perdere il proprio ruolo per un esperimento inefficace imposto dall’Ue – dichiara la prima cittadina -. È stato istituito il primo hotspot d’Europa, contando forse sul fatto che la struttura di Contrada Imbriacola era modello di efficienza. Adesso, emergono le criticità e l’acuirsi di attrito tra il sistema hotspot e la convenzione di Dublino». Nicolini ha poi reso noto di aver contattato il ministero dell’Interno affinché «effettui una verifica urgente dello Stato di questo esperimento», perché «non possiamo più permetterci il lusso di gravi errori sulla pelle dei migranti e di Lampedusa che ha già pagato un caro prezzo negli anni passati».
A proposito delle nuove proteste e più in generale dello stato di accoglienza a Lampedusa, il collettivo Askavusa, da sempre vicino alle istanze dei migranti, si sofferma sulle reazioni dei lampedusani. «Molti hanno commentato con frasi del genere “Ma come? Noi li accogliamo e loro si lamentano?”, oppure “Non rilasciano le impronte perché sono delinquenti”», dichiara l’attivista Giacomo Sferlazzo. Secondo il quale, il mito di Lampedusa come terra d’accoglienza va ridimensionato: «C’è chi si dà da fare cercando di fornire un po’ di aiuto ai migranti, ma anche chi reagisce con diffidenza. L’isola – continua Sferlazzo – non è diversa da qualsiasi altro posto e i commenti che si sentono in giro si potrebbero sentire anche in altre città». Per il collettivo, quello degli eritrei dovrebbe servire da esempio per gli italiani: «Ci sembra strano che non stiano passivi a subire tutto dentro il centro perché ormai noi ci siamo abituati a subire – conclude Sferlazzo -. Bisognerebbe invece essere uniti e stare a fianco di chi non si rassegna e prova, nonostante tutto, a reagire».
Intanto è di ieri la notizia della rivalutazione delle posizioni di 120 dei quasi duecento migranti che il 2 gennaio avevano ricevuto un provvedimento di respingimento da parte della questura di Trapani. I migranti – la maggior parte dei quali provenienti da Pakistan, Gambia, Senegal e Burkina Faso – avevano denunciato di non essere stati sufficientemente informati al momento del loro arrivo nell’hotspot trapanese. I respingimenti, infatti, erano stati decisi dopo che dalla documentazione redatta dagli operatori del centro risultava che nessuno dei migranti aveva manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale. I migranti, adesso, verranno accolti in strutture siciliane e lombarde.